L’ enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate sulla quale la diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro ha organizzato il convegno ecclesiale del 5 dicembre è l’occasione per una riflessione importante per tutti, credenti e non credenti, sul mondo globale di oggi, partendo dal punto di vista meno scontato, nei nostri tempi, che è l’uomo.La crisi che stiamo vivendo impone un ripensamento che va oltre le considerazioni che si fanno sull’efficacia attuale di un misuratore quale il Pil, ma investono in maniera profonda argomenti di ben altro spessore e sui quali forse non si ragiona abbastanza. In questa situazione credo che la preoccupazione più importante debba riguardare la natura di questa crisi, gli effetti che questa produce, il modo di contrastarla (e soprattutto come si può evitare che questa si ripeta), quale mondo, a partire dal nostro, ci possiamo aspettare per il dopo.È deviante pensare che tutto questo dipenda dalla globalizzazione che è solo un modo imperfetto per distribuire lo sviluppo, che distrugge in modo diseguale risorse naturali essenziali, come imperfetti (e ingiusti) lo sono ancora oggi tutti i meccanismi per redistribuire la ricchezza. Altrettanto deviante sarebbe il voler affrontare questa crisi chiudendosi in una sorta di «protezionismo» culturale, religioso, economico, per il quale siamo tutti portati a difendere ciò che abbiamo da chi non ha nulla o quasi, identificando in questi il «nemico» da tenere lontano dai confini della nazione, della città, della fabbrica, sino (tanto più) dalla porta di casa. Questa chiusura che è la negazione dei principi elementari dell’accoglienza è forse uno dei segni più negativi della crisi.La nostra città sta vivendo una fase di trasformazione profonda nella quale si sommano le difficoltà dei suoi tradizionali settori produttivi, l’orafo, l’abbigliamento il calzaturiero e i problemi che derivano dalla crisi più grave del dopoguerra, che rende difficile progettare le linee di un nuovo sviluppo per il futuro. Una crisi che è insieme finanziaria e produttiva, che chiama direttamente in causa le banche e le imprese e il loro rapporto con il territorio. Particolarmente grave è la crisi della piccola e media azienda (preoccupano i dati sulle chiusure di imprese: 170 in 6 mesi con la perdita di circa 1000 posti di lavoro). Il risultato è che alle già pesanti perdite occupazionali di questi ultimi anni va aggiunto il carico di disagi causato dalla mancata conferma dei lavoratori con contratto a termine o di somministrazione che sono i primi a essere espulsi dalle fabbriche, accompagnati da una massiccia ondata di cassa integrazione e di licenziamenti.E anche se ci sono alcuni deboli segnali di ripresa rispetto alla caduta verticale dei dati della produzione, è anche vero che sul fronte occupazionale l’uscita dalla crisi non si intravede a breve e metterà a dura prova il sistema degli ammortizzatori sociali. Di fronte a un quadro, tutta la comunità aretina, le sue istituzioni, la Chiesa, il sindacato hanno il diritto e il dovere di ripensare il futuro della città e immaginare un nuovo sviluppo che metta al centro l’uomo e il lavoro.Il lavoro che c’è, il lavoro che manca. Il lavoro come primo diritto, come strumento necessario di dignità: lavoro così come è descritto dalla Costituzione, un lavoro dignitoso che consenta un salario sufficiente per una vita dignitosa. Un lavoro decente, come definito nel suo appello da Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo dei lavoratori del 1 maggio 2000. Un lavoro, da quello più umile a quello più importante, dove la tutela della salute e della sicurezza sono considerate l’investimento più importante. Un lavoro flessibile ma non precario, dove i contratti a termine sono un’eccezione e non la regola e la loro durata consenta di programmare il proprio futuro. Un lavoro che non lasci indietro nessuno, neanche chi il lavoro lo perde.In questi anni esperienze significative, anche attraverso la contrattazione, sono state fatte, molto resta da fare, ma anche nella fase più acuta della crisi si è potuto garantire un minimo di reddito anche a chi il lavoro lo aveva perso. La promozione del lavoro decente e dignitoso, significa anche difendere il lavoro che c’è oggi pensando a quello che servirà e dovrà esserci domani, predisponendosi a quel momento con tutti gli strumenti necessari.Il futuro della città non potrà fare a meno dei suoi settori manifatturieri tradizionali ma anche questi andranno orientati e sviluppati verso produzioni a più alto contenuto tecnologico, con più qualità, minor impatto ambientale, investendo in tecnologia, in nuovi prodotti e soprattutto sulla capacità dei lavoratori, attraverso la scuola e la formazione. Decisivo in questo quadro il ruolo della scuola e del diritto allo studio.Anche attraverso la scuola e la formazione la città potrà guardare anche oltre i settori manifatturieri e immaginarsi un futuro dove il lavoro e l’occupazione sono distribuiti tra pubblico e privato, tra grande e piccola industria, i servizi e dove crescono le filiere come quelle possibili tra agricoltura e industria alimentare. Questo presuppone una visione sociale dell’impresa, intesa come patrimonio comune da difendere e salvaguardare, dove le banche non pensano solo al loro profitto, dove le organizzazioni sindacali hanno una vocazione contrattualistica e svolgono un ruolo non antagonistico ma concertativo e dove le istituzioni garantiscono il punto di riferimento per fare la sintesi di scelte condivise nell’interesse della collettività. Questo che sembra un quadro oggi inimmaginabile potrebbe costituire la risposta alle crisi in atto e il passaggio cultura della divisione e del particolare alla cultura della responsabilità.di Luciano Falchi sindacalista di Arezzo