«Di ritorno dalla Terra Santa ho una bella notizia da darvi: il Signore è risorto! La mattina di Pasqua, con i miei occhi, ho visto la tomba vuota. È la prima cosa che voglio condividere con voi stasera». Con queste parole don Mario Cornioli, sacerdote della diocesi di Fiesole, originario di Sansepolcro, in servizio presso il Patriarcato latino di Gerusalemme, ha aperto la conferenza dal titolo «Io vivo al di là del muro» che si è tenuta nei giorni scorsi al salone Teatro Sant’Andrea Corsini di Montevarchi. La serata, organizzata dall’associazione «Habibti Betlemme» e dall’assessorato ai gemellaggi del Comune di Montevarchi, fa parte di un ciclo di incontri sul tema «La Palestina oltre il muro». L’obiettivo è tenere viva l’attenzione sulla realtà mediorientale e sugli effetti del muro costruito dagli israeliani. Il sacerdote, che svolge il suo ministero a Beit Jala (città palestinese a circa 10 km a sud di Gerusalemme), ha testimoniato la difficile vita quotidiana della popolazione locale. «Se da un lato abbiamo vissuto la gioia pasquale della Resurrezione, dall’altro in queste terre viviamo realmente un profondo sabato santo in cui la speranza umana sembra molto lontana» ha osservato. Per esempio «i nostri cristiani non hanno potuto vivere la Pasqua a Gerusalemme. I militari israeliani hanno prima concesso i permessi e poi bloccato le persone al check point. Episodi del genere provocano rabbia e amarezza sempre più difficili da gestire». Nonostante tutto, però, la comunità cristiana è impegnata a mantenere viva la speranza. Anche di fronte al progetto israeliano di confiscare le terre a 57 famiglie di Beit Jala per costruire il muro di separazione. «Cerchiamo di resistere e di vivere nella preghiera questa situazione» ha spiegato don Cornioli, ricordando che ogni venerdì viene celebrata la Messa tra gli olivi dei terreni che rischiano la confisca. «Con questi piccoli gesti, anche di resistenza nella fede, i nostri cristiani riacquistano un po’ di speranza e voglia di lottare. L’occupazione li rende infatti sempre più frustrati e umiliati. È davvero una condizione pesante».Una realtà in cui frequenti sono anche i momenti di fatica e disillusione. «La fatica è anche quella di accettare la propria incapacità a trovare una soluzione a questa situazione ha aggiunto ma in questi anni ho imparato a fidarmi meno delle mie capacità e affidarmi di più a Dio» soprattutto «quando umanamente sembra non ci sia via d’uscita e non ci siano speranze. Anche se spesso quello che fa rabbia è vedere che non c’è volontà di dialogo dall’altra parte. Non è vero che sta riprendendo il dialogo Israele- Palestina. C’è invece una grande paura e incertezza per il futuro». Ed ecco allora che diventa importante qualsiasi iniziativa per favorire la conoscenza reciproca. Come le conversazioni serali di don Cornioli con i giovani soldati del check point, quando prova a spiegare ai ragazzi israeliani che dall’altra parte del muro non sono tutti terroristi. «Allo stesso modo cerco di far capire ai palestinesi che non tutti gli israeliani sono militari cattivi che li umiliano». Piccoli gesti fatti per riallacciare le relazioni, nella convinzione che «se ci incontriamo e ci guardiamo negli occhi si vede che l’altro è come noi. Non deve fare paura. Anche se di un’altra religione o cultura». Questo è importante poiché «un cristiano non deve mai temere il confronto. E non è certo un muro che può dare pace e sicurezza a quelle terre».Oltre alla fatica di vivere una «situazione pesante» don Cornioli ne ha evidenziato anche le gioie. Tra queste ha indicato la «Hogar Niño Dios» (Casa del Bambino Gesù), luogo di accoglienza per bambini disabili abbandonati nato vicino alla Basilica della Natività di Betlemme e gestito dalle suore del Verbo Incarnato. Attraverso l’impegno del sacerdote la struttura è stata ampliata con varie donazioni e adesso ospita 19 bambini. «L’ultima bimba è arrivata il 25 dicembre scorso ha raccontato . È stata portata qui quando aveva quattro mesi per essere accompagnata alla morte. L’hanno consegnata alla Casa perché non c’erano più speranze. Però la cosa interessante è che la bambina non aveva nessuna voglia di morire. Anzi, si è messa a mangiare e adesso pesa sei chili». Quindi, nonostante le difficoltà, la speranza rimane sempre viva. «Anche quando umanamente non c’è speranza noi crediamo in un’Altra speranza ha aggiunto il sacerdote . Nessuno duemila anni fa avrebbe detto che la pietra sarebbe stata rotolata via dal sepolcro e il Signore sarebbe risorto». E ha concluso: «Questo sabato santo che viviamo in Palestina è lungo, ma prima o poi arriverà l’alba della Resurrezione. Siamo convinti che una mattina ci sveglieremo e il muro sarà caduto. Con questa speranza continuiamo a restare lì: aspettando quest’alba».