Arezzo - Cortona - Sansepolcro

Il saluto alla Mena, «esempio» di fede.

Se n’è andata il 12 maggio, nel mese dedicato alla Madonna che ha tanto pregato e nel giorno in cui la Chiesa ricorda san Leopoldo Mandic, un santo frate cappuccino piccolo e umile come lei. La Mena di Colcellalto se ne è andata in silenzio, dopo due anni di una dura malattia vissuta nell’accettazione, come un sacrificio, un’offerta a quel Dio crocifisso che ha sempre amato. Era una donna semplice, umile, di quelle di cui, un tempo, erano piene le nostre parrocchie e che costituiscono l’anima di un paese e che per questo lo rendono accogliente, sereno, religioso. Tutto per lei era sacro, tutti i quotidiani e umili gesti della vita, tutto era accettato come un dono, tutto era segno della bontà di Dio per gli uomini. La casa sempre accogliente, il pane da fare con sopra il segno della croce, i panni da lavare, la legna per la stufa, l’orto da curare. E poi, i fiori semplici e belli della nostra terra, i gerani, le calle, i gladioli, i gigli nei vasi in terrazza e su per le scale, curati ed amati perché servono per la chiesa lì di fronte, per rendere gioiosa, bella, profumata, la sposa di Cristo nei suoi grandi giorni di festa. La chiesa, quotidianamente visitata, perché lì c’è il Signore che ti aspetta, ti ascolta, ti conforta, ti perdona, ti ama.Per lei la fede era una presenza eccezionale che incontrava ogni mattina nella Comunione e nella sequela cordiale, fiduciosa, rispettosa di quel grande sacerdote ed educatore che era don Gerico Babini: le sue essenziali omelie, i suoi canti, il suo innamoramento per Cristo, per la Chiesa e i suoi parrocchiani erano il faro luminoso e sicuro su cui potevi puntare la barca della vita. Ed ancora, l’altra grande e muta parola della creazione: l’umiltà degli occhi del bove, dell’asino, dell’agnello; la bellezza dei fiori di campo, delle messi d’ambra colorate; il buon sapore delle mele, delle susine, delle more che nessuno aveva piantato e che ogni anno venivano regalate; il profumo del pane cotto nel forno e del fieno appena tagliato nei campi; e la notte, l’immenso si adornava dei luminosi gioielli dello stellato e alta nel cielo sopra l’Alpe splendeva il diadema della luna. Tutto era troppo bello per lei. Viveva con dentro lo stupore, quel fiore così essenziale alla conoscenza, che è dono agli umili, ai semplici di cuore. Quante volte l’ho sentita esclamare: «Come sei grande Dio e come è grande la tua bontà per noi».Anni vissuti così, giorno dopo giorno da quando, sposata con Giovacchino, era venuta a stare a Colcellalto. Per lei la vita, pur nelle tante difficoltà, era semplice da vivere: bastava andare dietro al Signore, bastava guardare. Il bene era fare la volontà del Signore e il male era rifiutarlo, fare di testa propria, fare il proprio comodo. La gioia era assaporare la bontà di Dio e il dolore, il grande dolore, vederlo offeso, abbandonato, non amato. Quante volte l’ho trovata, alla tenue e calda luce del focolare con la corona in mano. E negli ultimi anni, ci eravamo dati come un compito: recitarla per il bene delle famiglie e specialmente per quelle più bisognose dell’aiuto della Madonna.Nelle tante contrarietà della vita – perché la vita non era stata tutto rose e fiori (la guerra, una famiglia numerosa con il solo Giovacchino che lavorava lontano, la miseria…) – mai una ribellione, una disperazione, una parola di troppo. Non c’era in lei quella diabolica divisione tra la fede e la vita così tanto foriera di infelicità all’uomo di oggi.Cara Mena, io sono certo che, come è scritto nel tuo ricordo, «dal cielo continuerò ad amarvi come vi ho amato sulla terra», insieme ai tuoi figli, amerai anche me e la mia famiglia. E mi piace immaginarti lassù sotto il manto della Madre di Dio, con il tuo Giovacchino, i miei genitori, don Gerico, i Cheli, i Donati, le Fattorini, i Regi, i Rosati, i Venturini, i Fantignoli, i Milli, e tutto quel popolo di Colcellalto che ti ha amato.Nuto di Colcellalto