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«Ad arricchirmi nel cammino è stata la relazione con gli altri»

di Gabriele Cisetti

Il primo pellegrino lo incontro in mezzo ai tir, a Porcari Nord, il luogo meno ameno del mio viaggio, che con la sua zona industriale meno ricorda la strada dei pellegrinaggi medievali. Il suo nome non lo so, sono solo all’inizio del mio cammino e sono ancora chiuso nel mio guscio. Però prima di ripartire ci scambiamo le nostre esperienze, lui viene da Roma ed è diretto a Santiago. Proprio così, a Santiago. Sarà l’unico pellegrino che vedrò camminare in senso inverso.

Paola e Andrea da Verona li incontro a Galleno nel piccolo punto di sosta prima del selciato originale della Via Francigena. Andrea è in pensione da qualche mese e, per festeggiare, i due sposi di lunga data hanno deciso di seguire i passi dell’arcivescovo Sigerico, da Canterbury a Roma. Camminano da più di due mesi, hanno attraversato l’Europa. Così ne hanno di cose da raccontare sul loro Grand Tour. E me le racconteranno, poco per volta, nei giorni seguenti. Perché la cosa bella di questo pellegrinaggio è che ci si rincontra, presto o tardi, davanti a una chiesina solitaria o in un barrino sperduto.

Quanti saranno i pavoni rimasti nelle aie delle nostre campagne? Fatto sta che a Ponte a Cappiano trovo una piuma di pavone, lunghissima, con un ciuffetto variopinto in cima. Mi pare un segno. Questo animale così poetico mi viene in mente che viene considerato un simbolo di rinascita, di morte e risurrezione. Non mi ricordo in quale Natività del ‘400 c’è un pavone appollaiato sulla grotta, figura di Cristo e anticipazione del suo destino.

A San Miniato la compagnia si allarga: incontro Paolo da Bergamo, Denis il ciclista dal Piemonte e una coppia di Crema, Emanuele e Angela, che sono partiti da Pietrasanta.

A parte Denis, che in bici brucia più tappe, con gli altri ci ritroviamo la sera dopo, a Santa Maria Assunta a Chianni, una pieve deliziosa ricordata da Sigerico nel suo diario. Ad accoglierci troviamo Anna, la responsabile dell’ostello, e don Evaristo, parroco di Gambassi Terme, oltre che di questa chiesina. Glielo si legge in faccia che è un buono. Gli occhi belli, pieni di vita, l’espressione bonaria. Quello che si dice «un buon pastore», almeno questa è la mia impressione a prima vista. Angela gli chiede espressamente di fare una messa non programmata tutta per noi pellegrini e lui accetta di buon grado. È il momento di comunione più intenso tra tutti noi, con le nostre strade, estrazioni, età, storie diverse. Neanche a farlo apposta, la prima lettura di questa giornata è la storia di Mosè salvato dalle acque, un Viaggiatore come noi, ci ricorda don Evaristo, che a sua volta salverà dalle acque il popolo di Israele portandolo dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della Terra Promessa. Don Evaristo durante la Messa si fa serio, mi pare quasi trasfigurato, tanto è ispirato e concentrato nel suo monito: «Il vostro pellegrinaggio sia il segno del vostro cammino di cristiani nella vita». Lo terrò a mente, don Evaristo. Promesso.

Anna ci racconta che l’anno scorso questo prete buono ha avuto dei problemi di salute. Durante la messa si è sentito male, chissà, forse un calo di pressione. Ha chiesto una sedia e ha continuato, fino alla fine. Poi si è spostato alla vicina chiesa di Gambassi, ha fatto la messa pure lì, ha avuto un altro malore, e anche lì ha continuato fino in fondo. Don Evaristo/povero Cristo, come nella canzone di Gaber, me lo immagino così, che dà l’esempio alla sua comunità, è come se dicesse: guardate che essere cristiani vuol dire seguire Gesù fino in fondo, bere il calice fino alla feccia, assumersi tutta intera la responsabilità di donne e uomini su questo mondo.

L’Accoglienza Santa Luisa a Siena è la Casa dei Poveri, mensa, rifugio per famiglie in difficoltà, come una giovane albanese che conosco con la sua piccina, e accoglienza per i pellegrini. Suor Ginetta ne è la responsabile. Ne ho sentito dire un gran bene e poi ho sentito tante storie su di lei: Suor Ginetta era un’atleta nella sua vita precedente, Suor Ginetta faceva l’operaia, Suor Ginetta ha avuto la vocazione a 40 anni perché il Signore non la lasciava più in pace e ha accettato la chiamata, ma – come dice lei stessa – alle sue condizioni. Si vede che non è fatta per la clausura, sta bene in mezzo alla gente, è espansiva, accogliente, generosa, un fiume in piena. Ha del sonno arretrato perché al mattino alle 6 è già in piedi per pregare e dopo una giornata di lavoro al servizio dei poveri alle 11 di sera è ancora lì con noi a raccontarci come è nata l’esperienza di accoglienza ai pellegrini, quasi per caso, con un bel ragazzo spagnolo – parole sue –, un capellone, che bussò per primo alla sua porta.

Charles e Gauthier sono i due pellegrini più giovani che conosco dalle suore, due francesi simpatici che hanno percorso come me solo il tratto Lucca-Siena e che mi invitano a visitare insieme la città prima di ripartire il giorno dopo. Così entriamo in Duomo dalla Porta detta del Perdono, l’accesso riservato ai fedeli, e ci ritroviamo a cantare sdraiati sul sagrato un po’ di Puccini – Nessun dorma, che traduco in estemporanea per loro in «Personne ne dorme» – e Charles Trenet, giusto per pareggiare i conti.

«Ero stanco e mi avete fatto dormire, affamato e mi avete dato da mangiare, assetato e mi avete dato da bere». Più del paesaggio, i campi di grano, i boschi, le badie, i castelli, i paesini, l’arricchimento mi è arrivato dalla relazione con tutti voi.

Grazie mille per la vostra accoglienza e per la condivisione e buon proseguimento di cammino.