Chiedere e dare perdono: la forza di Claudia e Irene
Il dolore è una cosa seria. Ce lo insegna anche il Vangelo: Gesù piange per l’amico Lazzaro che è morto; Giairo, uno dei capi della Sinagoga, che chiede la vita per la figlioletta morente; Maria che, straziata dal dolore, resta ai piedi della croce assistendo impotente all’agonia del Figlio.
Il dolore è una cosa seria, è una dimensione della vita sulla quale ci giochiamo anche la nostra fede. Ma il dolore è anche una strada, come lo è stata la via crucis. È una strada che va percorsa tutta, evitando inutili scorciatoie, ma immergendosi nell’abisso, che a volte è solo disperazione, per incamminarsi – a passi anche stentati – verso la feritoia di luce che intravediamo. È questa l’esperienza che hanno vissuto Claudia Francardi e Irene Sisi, due «mamme coraggiose», che hanno saputo convertire il dolore in un sentiero di speranza. Per loro e per molti altri.
Claudia Francardi è la vedova di Antonio Santarelli, l’appuntato scelto dei Carabinieri, che una mattina di festa è uscito di casa per prendere servizio e non vi ha fatto più ritorno. Quella mattina del 25 aprile 2011 la vita di Antonio si è intrecciata indissolubilmente con quella di Matteo Gorelli, un ragazzo poco più che diciottenne, il quale di ritorno da un rave party, si imbatte in un posto di blocco dei Carabinieri nella zona di Pitigliano (Grosseto). Doveva essere quasi una pratica di routine e invece quell’alt genera l’inferno. Antonio, insieme al collega, viene aggredito, riporta gravissime lesioni cerebrali e dopo un anno di coma, l’11 maggio 2012 muore.
Per quell’aggressione, diventata mortale, Matteo sta scontando venti anni in una struttura di don Antonio Mazzi nel Milanese. Una terribile storia di cronaca, come purtroppo molte ne leggiamo, che poteva finire lì, «ridursi» ad essere – appunto – «solo» una terribile vicenda di «nera» e che invece, per la forza del perdono, diventa anch’essa una storia di resurrezione. Grazie a Claudia, la vedova del Carabiniere, e Irene, la mamma del giovane che sta scontando una pena per omicidio. Dal buio della disperazione, che in modi diversi le ha fatte sprofondare nell’abisso, Claudia e Irene hanno trovato la forza della risalita, faticosa, lenta, nient’affatto scontata, ma ce l’hanno fatta. A rendere possibile la loro rinascita è stato il perdono, chiesto e donato, desiderato e maturato nel cuore. Insieme Claudia e Irene hanno dato vita all’associazione «AmiCainoAbele», presentata ufficialmente pochi giorni fa a Grosseto, nell’ambito della festa parrocchiale di Santa Lucia, nel quartiere Barbanella.
Con loro, in questo cammino faticoso, c’è sempre stato un sacerdote, don Enzo Capitani, direttore della Caritas diocesana di Grosseto ed una vita spesa in mezzo a quelle «periferie esistenziali» di cui tante volte ci parla Papa Francesco. Nel corso degli anni don Capitani ha dato vita a tante realtà sociali e di volontariato, «ma –’ ha detto – stavolta ho contribuito a far nascere qualcosa di diverso, a suo modo straordinario».
Ha parlato di «ritorno alle origini», don Enzo, ma non in senso temporale, a quando cioè con uno sparuto gruppo di volontari e operatori dette vita al Ceis anche in Maremma. No, un «ritorno alle origini» nel vero senso della parola, un ritorno alle origini «di noi come persone – ha spiegato –. Ciascuno di noi quando è nato era in pace con tutti; la vita poi ci porta quasi a spezzare l’incantesimo della fraternità umana e nelle nostre scelte si insinua il tarlo della divisione, del risentimento, della collera, dell’ingiustizia… Quanto sarebbe bello se ognuno di noi si impegnasse a recuperare l’armonia delle origini», ha sospirato.
«AmiCainoAbele» nasce con questo scopo: ritornare alla origini, non dimenticando – certo – che il male provoca conseguenze, che bisogna rispondere del dolore generato in altri, ma che c’è anche da ricomporre un quadro, un’armonia spezzata. Claudia e Irene sono partite da qui per imparare a guardasi negli occhi, chiedendo e ricevendo perdono. Non è una storia «zuccherosa» questa; anzi, è la stessa Claudia Francardi a dire subito: «Non sono pazza», ma «se diciamo di credere in Gesù, non possiamo prendere del Vangelo solo quello che ci conviene». Ma il percorso imboccato da questa donna esile, delicata, ma forte e coraggiosa, è stato dolorosissimo, così come quello di Irene.
Entrambe hanno lasciato che il dolore – quello che soffoca, toglie il respiro, annulla la vista – facesse il suo corso. Poi è iniziata la risalita. Paradossalmente è stata proprio la morte di Antonio Santarelli a far dire a Claudia che non avrebbe voluto un futuro di rabbia, di rancore, di vendetta. Doveva fare i conti con quel giovane che le aveva «ucciso l’amore», così come nel lungo e straziante periodo di coma del marito, ha dovuto fare i conti con la disperazione, con la voce dei medici che le ripetevano che per Antonio non c’era alcuna possibilità, con la depressione, coi mesi di buio, di dolore impotente.
Nel frattempo stava andando avanti il processo di prima grado e dopo la morte di Antonio, l’accusa per Matteo si fa più grave: omicidio. Poi arriva la sentenza: ergastolo. Nella concitazione del momento c’è chi sorride e chi si dispera, c’è chi piange e chi si da di gomito: solo queste due mamme, fragilissime come una porcellana di Capodimonte, sentono nel loro cuore che non basta un tribunale. «Quando ho sentito la parola ergastolo – racconta Claudia – mi sono sentita morire un’altra volta. Matteo aveva fatto qualcosa di aberrante, ma non potevo rassegnarmi all’idea che non gli fosse concessa una possibilità di riscatto.
L’incontro tra le due mamme era già iniziato nelle settimane precedenti quella sentenza di condanna (che poi in appello è stata mitigata a vent’anni): un giorno Irene fece recapitare a Claudia una lettera, nella quale con poche parole, le chiedeva perdono. Quella lettera non è finita nel cestino: Claudia l’ha aperta e l’ha letta. C’è voluto del tempo, perché maturasse una risposta, poi un giorno le due donne si sono incontrate ed un abbraccio ha sciolto molto, se non tutto. Irene non ha mai minimizzato o cercato «scusare» il figlio, anzi si dice convinta che proprio grazie al fatto che anche in fase processuale non si siano cercate scappatoie, ma solo la verità e che Matteo si sia preso fino in fondo la responsabilità di quanto commesso, Claudia abbia avuto la possibilità di imboccare la strada del perdono. Il cammino continua, la risalita è lenta, ma un sentiero si è aperto e nessuno vuol tornare indietro.
Dalla discesa all’inferno al percorso di resurrezione
La prima cosa che Claudia Francardi ha fatto, il giorno in cui a Milano si è incontrata faccia a faccia con Matteo Gorelli, il giovane che aveva aggredito suo marito fino a condurlo alla morte, è stato guardare le mani di Matteo. «Mi sono chiesta come sia stato possibile che mani tanto piccole e affusolate avessero potuto compiere un gesto tanto tremendo». E quelle mani hanno incontrato quelle di Claudia grazie ad un Rosario: «Quel giorno – racconta la donna – avevo con me una corona e ho chiesto a Matteo se potevo metterla tra la sua e la mia mano». E così è avvenuto.
La forza della riconciliazione è passata anche da quel gesto, per certi versi ardito. «Per Matteo – ha spiegato la mamma Irene – è stato difficilissimo incontrare per la prima volta Claudia: in lei rivedeva il male che aveva commesso, la rappresentazione della sua colpa. Ma poi si è sentito perdonato ed in lui è nata la voglia di diventare una persona migliore». Oggi Matteo studio all’Università, è iscritto al corso di laurea in scienze dell’educazione, vuol diventare educatore nelle carceri «per essere – spiega la mamma – un ponte tra il passato e il futuro che può esserci».
Nel contempo prosegue l’impegno di Irene Sisi e Claudia Francardi per far sì che la loro vicenda diventi un seme fecondo per altri. Le due donne partecipano ad incontri nelle scuole ed è proprio durante il viaggio di ritorno da uno di questi incontri che quasi all’unisono si sono dette: «Come possiamo fare in modo che questa nostra storia non resti solo un fatto per noi?».
È nata così l’idea di dar vita all’associazione «AmiCainoAbele» per coinvolgere altre persone e diffondere la cultura della riconciliazione. Che passa attraverso alcune parole che stanno alla base del progetto: verità, responsabilità, compassione. Il perdono, infatti, è un fatto personale, ma può nascere dentro un cuore preparato e all’interno di una situazione in cui la giustizia fa il suo percorso. Verità e responsabilità: quella che ha detto Matteo e che Matteo si è assunto. Se anche in sede processuale la verità non fosse emersa fino in fondo e Matteo non avesse compiuto un percorso di consapevole pentimento, non ci sarebbe stato un «dopo» diverso da quello che sembrava già scritto: una storia di dolore in sopportabile, capace solo di «congelare» ciascuno nel proprio dramma.
Da questo percorso di discesa nell’inferno del male, la risalita è diventata invece un percorso di resurrezione, che può guarire «Caino» e «Abele» e può aiutare tanti altri a sperimentare che il perdono non è utopia, non è per gente «debole», ma per chi ha testa e cuore, per chi sente dentro di sé che c’è una strada percorribile, per quanto stretta e piena di insidie e dentro una vicenda che stordisce c’è un pertugio e una ferita enorme, che ancora fa male, ha però potuto trasformarsi in una feritoia dalla quale filtra quel tanto di luce che ha permesso il perdono.