DON ANTONIO NARDI: «E non chiamatemi prete artista»

di Giacomo GambassiNon chiamatelo «prete artista» perché a don Antonio Nardi non va troppo a genio. E in fondo ha ragione lui: sarà anche un sacerdote che quasi tutti i giorni indossa sopra il clergyman uno spolverino che somiglia alla tavolozza di un pittore; e sarà anche vero che la porta del suo studio si apre su un atelier in cui la materia viene forgiata dalle sue mani e dalla sua mente; ma sarebbe riduttivo condensare la vita di don Nardi, la sua vena poetica, il suo spirito creativo, il suo desiderio di essere a fianco degli «ultimi», la sua voglia di alzare la «voce contro», il suo passato segnato dall’esperimento (durato trent’anni) di una delle prime comunità italiane di recupero per i tossicodipendenti e un presente fra le colline del Casentino, a Talla, in una colonica trasformata in casa d’accoglienza per gli emarginati e i malati psichici; ebbene, sarebbe riduttivo racchiudere il suo bagaglio d’esperienze nella formula «prete artista».

Ecco perché don Nardi preferisce essere descritto come «un prete che sogna anche a 81 anni», dice di sé. E, infatti, sogna nuove opere d’arte che lascino il segno come le decine di chiese che ha arredato in tutta Italia, le vetrate gigantesche collocate in molte cappelle o il monumento dedicato al «Vangelo di Giovanni Paolo II» che sta ultimando. E sogna anche di poter continuare a dare una speranza agli ospiti della sua comunità: una comunità che lui ha chiamato «Betania» perché, spiega, «Betania era la “casa dei poveri”, era la patria di Lazzaro e lì Cristo andava spesso».

È una bussola la sua Betania. Una bussola per chi l’ha persa e per chi è ai margini. Una bussola che è aperta a tutti. Però, secondo don Nardi, la sua comunità non deve essere di peso a nessuno e soprattutto deve avere la forza di muoversi senza lacci e laccioli. «Non per nulla il mio principio di vita è sempre stato una frase di San Paolo: non siate di aggravio a nessuno. Si deve campare con ciò che si sa fare».E don Nardi vive d’arte sacra. Fin da quando è entrato in seminario, a Molfetta. «Nell’infermeria – ricorda – avevo allestito un piccolo laboratorio in cui dare libero sfogo all’inventiva. E le prime opere furono le lunette per la cappella del seminario che venivano cambiate nei tempi forti». Dalla sua Puglia, però, se ne sarebbe voluto andare. «Desideravo studiare arte sacra a Milano, nella scuola “Beato Angelico”». Ma il progetto si scontrò con le volontà del suo Vescovo.

Diventò prete il 26 giugno del 1946 quando l’Italia aveva scelto da pochi giorni di essere una Repubblica.

«Tornai da sacerdote nel mio paese d’origine, a Bitonto. Ero un semplice cappellano ma molto vicino alla gente». E in particolare ai ragazzi di strada. «Hanno detto che sono stato il prete degli sciuscià. E forse è vero: dormivo con loro, stavo insieme a loro, li portavo a Messa, li facevo confessare». Finché non scelse di voltare pagina. «Partii per Perugia sopra un camion con mia madre, cinque ragazzi e una capra. Sembrava di stare sull’arca di Noè». Nel cuore verde della penisola don Nardi si concentrò sull’arte sacra. «Un’arte – spiega oggi – che non è devozionale ma di culto». E tre sono i suoi pilastri creativi. «Prima di tutto è necessario che l’opera abbia un tema. Questo significa che deve essere capace di parlare anche fuori del momento liturgico e non può che trarre ispirazione dalla Sacra Scrittura». Secondo: la verginità della materia. «Occorre che sia chiara la sostanza. Non come accadeva nel Barocco o nel Rococò dove contava soltanto ciò che si vedeva». Terzo: la destinazione. «L’arte sacra deve avere come scopo il culto. E quindi deve essere anche “unica” e non figlia di un catalogo di commercio».

A Perugia don Nardi cominciò a frequentare i corridoi dell’Accademia di Belle Arti. «Con un’autorizzazione particolare perché ai preti era proibito andare in istituti pubblici». E trasformò in realtà un suo chiodo fisso: creare l’atelier del sacro. Lo chiamò «Centro diffusione di arte liturgica». «E ricevetti le congratulazioni del Vaticano», dice. Gli anni perugini furono quelli in cui la sua «bottega» sfornava calzari per i vescovi, crocifissi e paramenti sacri. Una fucina di idee che a metà degli anni Sessanta si trasferì a Firenze. «Diventai cappellano a Santo Stefano in Pane e lì ho progettato l’arredamento completo della chiesa di Correzzo, nel veronese, che aveva come comune denominatore il Battista». Quando nel ’66 Firenze finì sott’acqua, don Nardi era ancora in città. «E ricordo che stavo realizzando un tabernacolo con dieci chili di argento per Ragusa». La sua parrocchia aprì le porte agli «angeli del fango». E l’accoglienza di quei giovani gli segnò la vita. Perché una ragazza rimase incinta. «Fu quasi ripudiata dalla famiglia – confida don Nardi – e di fatto l’adottai». Fu la prima. Dopo un paio d’anni il tribunale di Firenze gli affidò un tossicodipendente. Ma don Nardi aveva già traslocato: era approdato a Barberino del Mugello. «Così nacque la comunità di recupero che è sopravvissuta per trent’anni. E senza avere un soldo dallo Stato», spiega il sacerdote. «Per finanziarci avevamo messo su di tutto: da una fabbrica di ceramica alla tipografia che stampava anche per la Sip, l’Enel e la diocesi di Firenze». Dalla sua comunità sono passati migliaia di ragazzi. «Dovevano restare per almeno cinque anni – spiega don Nardi – e la giornata era scandita dal lavoro». Anche a Barberino il suo estro creativo non si fermò. Anzi, giunse fino a Gioia del Colle dove progettò gli interni della parrocchia di San Vito. «In una cittadina molto conservatrice il mio progetto fu un pugno allo stomaco, ma doveva servire per rompere con le tradizioni ormai vuote».

Lui, invece, ruppe col «business del recupero dei tossicodipendenti», scrisse all’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro. Era il ’89 e decise di rifugiarsi in Casentino, nel polmone verde della provincia di Arezzo. Sempre con chi veniva dimenticato dalla società. «Anche se stavolta si trattava di persone con un certificato clinico di disintossicazione e di immigrati». E a Talla si è fermato. Accompagnato dalla sua passione per l’arte e dai suoi «ospiti» che oggi sono una ventina. «Avrò anche avuto una vita complicata – dice don Nardi mentre sfoglia le riproduzioni delle sue opere – ma a cuore aperto posso dire che rifarei davvero tutto».

Come sostenere la comunitàL’associazione di volontariato «Comunità di Betania» lancia un appello a coloro che volessero sostenere la comunità nelle attività quotidiane di accoglienza e nella realizzazione del monumento di don Antonio Nardi dedicato al «Vangelo di Giovanni Paolo II» che verrà collocato a Bari. Chi volesse contribuire può inviare un’offerta: con bonifico bancario sul c/c Cassa di Risparmio di Firenze – Agenzia di Talla – n. 1457/00 – Abi 06160 – Cab 71650; oppure attraverso il Bancoposta c/c 14245518 – Abi 07601 – Cab 14100. È opportuno inserire nella causale il nome e l’indirizzo del mittente a cui verrà inviata una mattonella con la riproduzione del monumento. L’associazione di volontariato «Comunità di Betania» si trova a Nassa del Bagno, 52010 Talla (Arezzo). Il telefono è lo 0575-592635. Il monumento dedicato a Giovanni Paolo IIUn vangelo in bronzo alto quattro metri e largo sei. I rami di ulivo «stampati» sulle pagine al posto delle parole. E davanti la statua in vetro del «Grande Papa», Karol Wojtyla, mentre alza un’ostia. Ecco i punti cardine del monumento che don Antonio Nardi ha scelto di dedicare al Pontefice. Un monumento che doveva essere donato al Santo Padre durante il Congresso eucaristico nazionale di Bari e che, invece, resterà nel capoluogo pugliese come tributo postumo. Don Nardi ha voluto chiamare la sua opera «Il Vangelo di Giovanni Paolo II» ed è «un omaggio al Papa che si è presentato al mondo senza mai nascondere la sua sofferenza», spiega. A fare da filo conduttore al monumento la poesia che don Nardi scrisse a Giovanni Paolo II per il suo ottantesimo compleanno e che si intitola «Santo Venerabile Ulivo».L’idea dell’opera, però, gli balenò nella mente quando venne invitato a Roma per il Giubileo sacerdotale del Papa. «Anche io festeggiavo i cinquanta anni di ordinazione – ricorda –. E, insieme a centinaia di preti, celebrai la Messa col Papa». E lì si imbatté nel dolore del Pontefice. «Durante la consacrazione, lo vidi che sollevava il braccio tremolante tenendo salda la grande ostia. Fu una visione che mi scosse». Così cominciò a progettare il monumento. «Ho immaginato Giovanni Paolo II come un tedoforo che eleva l’ostia-fiaccola, unico faro per l’umanità. Invece, il Vangelo con gli ulivi doveva essere l’emblema dell’agonia del Santo Padre, il suo Getsemani. Ma anche la rivalutazione della senilità: perché più un ulivo è vecchio, più i suoi frutti sono dolci».

Ma il monumento a Wojtyla non è il primo che realizza don Nardi. Un altro suo lavoro si trova nella chiesa del Divino Amore a Roma ed è il tributo a «Cristo creatore del tempo e nello spazio» che venne donato in occasione del Giubileo del 2000. L’opera è una miscellanea di bronzo e vetro così come lo sarà il monumento dedicato a Giovanni Paolo II. Nel lavoro in ricordo del Santo Padre il bronzo servirà per forgiare il Vangelo aperto e il vetro per rappresentare il Papa. «Ho scoperto il vetro realizzando decine di vetrate per le chiese – spiega don Nardi –. E il vetro ha alcune caratteristiche peculiari: i suoi contrasti richiamano alla divinità, la sua trasparenza alla purezza, la sua proprietà di dividersi alla rettitudine». Per creare la statua, don Nardi sta completando un modello in polistirolo su cui verrà applicata una fibra di ceramica che permetterà al vetro di essere fuso a 900 gradi.

È già certo che il monumento verrà collocato a Bari. «Ma non sappiamo ancora se troverà posto nella spianata di Marisabella oppure nel nuovo aeroporto della città in modo che sia da stimolo per dedicare lo scalo a Giovanni Paolo II», precisa don Nardi. E l’associazione di volontariato «Comunità di Betania» ha dato il via ad una gara di solidarietà per finanziare la realizzazione dell’opera.