ROBERTO VOLPI: lo statistico dell’infanzia con la passione per il giallo

di Francesco Giannoni«Liberiamo i bambini». Così Roberto Volpi titola perentoriamente un suo saggio. Ed è giusto, visto che i bambini sono il nostro domani. «Più figli, meno ansie», così Volpi sottotitola lo stesso libro: e qui il discorso si fa più ostico, perché a prima vista si potrebbe pensare proprio il contrario. Ma Volpi mi chiarisce tutto.

Questo signore di una sessantina d’anni, dai tratti fini e aristocratici, dal sorriso simpatico e beffardo, e dagli occhi miti, di professione fa lo statistico. Ha progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia ed è impegnato, fra l’altro, nell’Osservatorio sulla stampa e i minori. Ci incontriamo a Firenze, all’Istituto degli Innocenti; per la nostra chiacchierata invita a sederci su una delle lunghissime panche nell’arioso Chiostro degli Uomini, anziché rinchiuderci in una stanza.

Nonostante sia abituato ad avere a che fare con i numeri, il dottor Volpi è un difensore dell’infanzia tutt’altro che freddo, anzi è decisamente appassionato e passionale.Perché facendo più figli si hanno meno ansie? Oggi c’è la tendenza a fare un figlio solo. Rispetto a quando fare tre figli era la norma, questo crea di per sé un determinato clima fatto di preoccupazioni, di attenzioni, di protezione. La nostra è una società dove per i bambini si parla solo in termini di rischi e mai di prospettive: prima i bambini erano la finestra sul futuro, oggi sono il centro dei rischi. È una trasformazione culturale, antropologica, e i bambini sono soffocati nella loro crescita, perdono di «bambinità».

Volpi porta ad esempio i parchi giochi: hanno una struttura tipica uguale da tutte le parti: un prato pianeggiante, nessun anfratto dove avere la possibilità di nascondersi, i giochi sono gli stessi dappertutto, e sono degli strumenti non manipolabili, a fruizione singola, ripetitivi. Questo è, secondo Volpi, lo schema inquietante che la società propone a un bambino. Tutto questo, però, è la negazione dell’infanzia. Infanzia vuol dire scoperta, manipolazione, rischio, incontro con gli altri. Normalmente è vietato introdurre nei parchi giochi, palloni, biciclette, cani; per di più genitori e nonni ripetono ossessivamente: non sudare, non ti muovere, non correre, non cadere e, soprattutto, non sporcarti (sennò la lavatrice dura fatica a lavare). Volpi è un uomo fisicamente minuto ma usa parole di ironia forte, pungente e graffiante, ma con una buona dose di ragione: il pericolo è che i bambini non crescano da bambini.

C’è una fobia per i rischi, o presunti tali, che i bambini possono correre. Non siamo più capaci di affrontare razionalmente i rischi. È chiaro che dobbiamo fare attenzione ai «grandi» rischi. Ma i bambini devono avere la possibilità di cimentarsi in qualcosa di pericoloso: cadere, sbucciarsi un ginocchio, slogarsi una caviglia, perché tutto ciò fa normalmente parte della vita.

Data l’iperprotezione cui è stato sottoposto, il bambino può non sapere entrare nell’adolescenza o dura una fatica estrema a farlo. Infatti oggi gli adolescenti si imbrancano e si imbrancano male, sono fragili, hanno coraggio solo in gruppo. «Quando ero ragazzo, io, come i miei coetanei, vivevo l’amicizia anche in gruppo ma avevo l’abitudine a usare la mia libertà in un ambito di sostanziale autonomia: e questo mi dava forza». Oggi in genere bisogna aderire al gruppo per sentirsi forti, da cui un gregarismo che non favorisce la formazione e la crescita dell’individuo.

Parlando di bambini e di figli in Italia, non si può non parlare di «mammismo». Più che un difetto della mamma italiana, è un difetto della famiglia italiana (ma anche greca e spagnola): i figli restano con i genitori molto a lungo e se ne vanno con grande riluttanza. Volpi è ossessionato dal ricordo di «a tavola tutti assieme»: è sicuramente una buona cosa, ma perché sempre? Magari il bimbo in quel momento legge, non gli va di vedere gli altri: non si cresce solo con i genitori, ma anche standosene da soli. Ed è fondamentale.

L’equivoco di oggi è credere che i problemi dei bambini si superano solo se i genitori stanno molto con i bambini, invece si cresce soprattutto stando con gli altri bambini. Si vuole fare del genitore una figura intrusiva, mentre deve essere una figura che sta un passo indietro, pronta a intervenire.

Volpi è babbo di tre figli: Irene, di 32 anni, Nicola, di 30 e Virginia, di 9. Gli chiedo un po’ provocatoriamente se come padre è riuscito a essere coerente con quanto dice e scrive. La risposta è diretta, com’è del personaggio: «Sì, credo di sì, ma ovviamente va chiesto ai miei figli». Ammette di essere stato un padre poco presente per impegni di lavoro, ma non crede che i figli ne abbiano sofferto perché quando doveva essere presente, senz’altro c’era. E poi si è sempre imposto di non imporre, di non piegare i figli alla sua volontà, la sua presenza era sempre discreta e i figli erano e sono consapevoli di poter contare su di lui.

I figli di Volpi sono usciti di casa presto, a 24-25 anni. Finiti gli studi, Irene ha lavorato come cameriera, Nicola è entrato in una tipografia; ora fanno altre cose. Ma con il babbo si sentono, si vedono, mangiano assieme, si raccontano le cose di tutti i giorni, in un rapporto di viva e feconda quotidianità.

Numeri, parole e tifoI numeri mi piacciono, confida Roberto Volpi, ed è anche per questo che di mestiere faccio lo statistico. Ma gli piacciono anche le parole ed è per questo che scrive: ha sempre scritto, anche di narrativa, sebbene in modo più nascosto. Scrivere lo distende, lo fa astrarre e distrarre dal lavoro quotidiano. La sua grande passione, anzi la sua «passionaccia» sono i romanzi gialli, ovviamente quelli di qualità. Prima nelle librerie la giallistica era confinata in un angolino, oggi, e da tanti anni, sono quelli che hanno più spazio (pensiamo al clamoroso successo vent’anni fa di un giallo storico come Il nome della rosa di Eco). Il primo libro di narrativa edito di Volpi è stato appunto un giallo, L’ultima mossa, con cui ha vinto il Premio Assisi. Niente male per un esordio. Con il suo sorriso a pizzicorino, sottovoce, mi confessa, però, che il libro «non se l’è filato granché nessuno, ma è un buon libro: lo legga anche lei». Non c’è questa volta una identità autore-protagonista, una proiezione di Volpi nel commissario Franceschini: «Non saprei fare l’investigatore, sono irruento, passionale, non sono quadrato» (sembra strano in uno statistico). A Franceschini, non piace cambiare, invece a Volpi sì.

Infatti, «ora cambio posto di lavoro. Sono uno statistico lo posso fare in tanti modi e in tanti luoghi diversi: lascio Firenze e torno a Pisa». Per la prima volta nella vita lavorativa Volpi lascia Firenze che ama molto e come prova schiacciante del suo sentimento mi confessa la sua fede calcistica: «Sono un tifoso viola sfegatato», ma la figlia Irene è juventina!…:«È un’altra dimostrazione che non sono stato un padre entrante».

Andava allo stadio, in curva Fiesole con il figlio Nicola ai tempi di Baggio: è stato un periodo bellissimo che Volpi ricorda con grande piacere, perché cementava fra padre e figlio una relazione forte. A volte questi elementi si sottovalutano: nel tifo, ovviamente quello moderato, c’è una forza sentimentale che può legare tantissimo genitori e figli. Tanti genitori con la puzza sotto al naso non si sognano nemmeno lontanamente di portare i bambini allo stadio, perché magari i figli sentono le parolacce, leggono lo striscione di cattivo gusto, assistono a episodi di violenza. Ma anche questo fa parte della vita, basta spiegarlo con calma e serenità ai figli.