ALBERTO FREMURA: Una matita e una torre

di Gianluca Della MaggioreLa Torre di Calafuria, struttura duecentesca che si erge a picco sulla scogliera rossa del Romito a Livorno, con quella sua indole di pietra e quella sfacciata insolenza nel resistere agli schiaffi più forti del libeccio si presta a facile poesia. Sembra che da secoli abbia stretto un patto col mare: lo scruta fin dove può, sembra temerlo ma, se questo s’infuria, lo sbeffeggia, lo rispetta ma trova comunque il modo di gabbarlo standosene sempre lì, ritta e imperturbabile.

E chi ci sta dentro, sfidando la sua spartana crudezza, è un’artista che quella torre ormai l’ha nel sangue. Dal 1974 ci lavora di giorno e spesso anche di notte, senza riscaldamento, né acqua, né bagno; inverno o estate, fa lo stesso. Più che un inquilino è un amante. «È vero. Questa è la mi’ ganza!», sbotta divertito nella prima delle tante battute della nostra chiacchierata. «Un giornalista scrisse che tradivo mia moglie con la torre, ed effettivamente è così, questa torre la amo alla follia, e come ogni amore vero è una costante sfida con se stessi».

L’artista, «il Maestro» – come lo chiamano con sua sottile e nemmeno troppo celata goduria – è Alberto Fremura. Umorista, pittore, illustratore, acquerellista, litografista, artista livornese come non se ne incontrano più: di quelli che riconosci anche se non lo sai. Baffoni bianchi dal taglio ricercato e capelli candidi che se il vento glieli scompiglia diresti che hai davanti il genio di Einstein, un mozzicone di sigaro sempre in bocca, e il vezzo di volersi far fotografare con le volute di fumo che gli incoronano il viso. Col suo umorismo caustico e sferzante, è il veterano dei vignettisti italiani e da 50 anni ci regala fulminee interpretazioni della realtà. Nell’indole è un po’ come la «sua» torre, ritto davanti al mondo, lo osserva «tutto», poi, sornione, tira una boccata al mezzo toscano, intinge il pennino nella china, e scarica giù una bruciante vignetta.

«Una volta, firmato un contratto con un giornale, mi chiesero una scorta di vignette – racconta Fremura –. Bah! Non avevano capito nulla. La vignetta si nutre della più stretta attualità: ma come? uccidono Moro e io esco con una battuta sull’ecologia? In Italia poche volte ho trovato qualcuno che capisse realmente la funzione di una vignetta, nei paesi anglosassoni, per esempio, c’è tutta un’altra cultura».

Inglese, per qualche aspetto, Fremura ci si sente sul serio (tra l’altro, per anni, ha disegnato anche per Punch, la più importante rivista umoristica d’oltremanica). Più che livornese, potremmo definirlo leghornese. «Perché livornese, nello spirito, lo sono, anche perché altrimenti 50 anni fa, quando potevo scegliere di andare a Parigi o chissà dove non sarei rimasto qua, ma il mio approccio all’humor è sicuramente più inglese. È facile far ridere come fa Il Vernacoliere disegnando il Papa che corre dietro alle suore, ma qual è il senso? più difficile far ridere e riflettere trattando un problema vero».

«Il tuo disegno è un lampo, la mia parola una lanterna» gli disse una volta Giuseppe Prezzolini, suo grande ammiratore. Per capire i messaggi di Fremura infatti «basta un colpo d’occhio», come quegli scrittori che con un vocabolario di duecento parole sono in grado di spiegarti il mondo. Ma guai a celebrarlo troppo, lui ci tiene a rimanere se stesso. Vive alla giornata, pochi soldi in tasca, perché – dice con una certa fierezza – non è mai stato un buon commerciante di se stesso: fedele solo alla sua matita. Lavorando al Giornale sbatté la porta dopo soli tre anni perché con Montanelli facevano cane e gatto: «Indro era una primadonna, un caratterino difficile, pretendeva di dirmi come fare le vignette, le voleva come pareva a lui».

Però nello stesso modo in cui Montanelli vedeva nei lettori i suoi unici «padroni», così anche Fremura dice di dover render conto solo al «suo pubblico»: «Mi interessa poco – dice – cosa ne pensano gli addetti ai lavori delle mie opere. Premi? Mah! Ne ho ricevuti e anche importanti, ma quel che mi interessa è la gente, devo sempre sentire un contatto diretto».

Di certo per il suo pubblico il «Maestro» non si risparmia, la porta della torre è sempre aperta per tutti: turisti, clienti, semplici curiosi. Se lo vai a trovare è sempre contento perché è buon conversatore e ama la compagnia, ti racconta la storia della torre come ogni buon «amante» ti racconta «l’amata» e poi «perché in 30 anni almeno 20 studenti ci hanno fatto la tesi».

A volte – se non ha voglia di fare gli 85 scalini che conducono dal suo studio in cima alla torre fino a pianterreno – dal terrazzo, con una cordicella, ti cala un panierino con dentro la chiave per entrare. L’estro è fatto anche di queste bizzarrie. Dentro, nella «sua caverna», i tavoli li trovi sempre ingombri di cose «fatte» e «da fare», dappertutto, negli angoli, alle pareti, sui cavalletti, tele bianche o quadri per le mostre, litografie e vignette abbozzate, sparse ovunque montagnole di mozziconi di sigari, fotografie, stampe, manifesti, file di matite, scalpellini, tubetti, pennelli macchiati di tinte, tavolozze ammucchiate. Una geografia disordinata di oggetti in cui trovi anche ammiccamenti di sacro: un inginocchiatoio, un crocifisso, un santino della Madonna di Montenero e poi un foglio incorniciato con una sua frase scritta qualche anno fa: Dio non lo si prega, lo si ringrazia. «Con Dio, stando qui in cima alla torre, ho un rapporto molto diretto». È la sua prima battuta se gli si chiedono spiegazioni, poi però si capisce che lì nella torre Fremura vive una sua personalissima avventura spirituale. «Questa per me è come la pancia della mamma. Mi sento protetto da queste mura. E non ho mai paura, nemmeno nel cuore della notte con le tempeste più violente e il libeccio che sembra voglia portar via tutto».

La notte, quando il silenzio si fa assoluto sembra che il tempo non ci sia più, la torre lo accoglie nel suo grembo, e per Fremura è il momento migliore per dar sfogo al suo estro. Abituato a sintetizzare il mondo in pochi limpidi schizzi, lì dentro si libera dal superfluo per mettersi alla prova: una sorta di lavatoio per l’anima. E poi albe spettacolari, tramonti da urlo, mareggiate furiose e paesaggi con cromature sempre diverse. È come se ogni volta Fremura intingesse il pennello attraverso le finestre-feritoie della torre per prendere ispirazione dalla natura. «E dopo trent’anni a guardarlo e dipingerlo – ci confida il Maestro appoggiato alla spalletta del terrazzo – il mare vive dentro di me sempre, è diventato un fatto mentale».

Umorista e molto di piùE’ appena tornato da sei mesi di lavoro vissuti in un monastero umbro sopra Gualdo Tadino. Alberto Fremura, sarà infatti l’illustratore del prossimo calendario di Frate Indovino. Una esperienza che ripete per la seconda volta dopo trenta anni. Attualmente collabora, come vignettista, con il quotidiano L’Arena di Verona. È impossibile ingabbiare l’esperienza di questo artista livornese nella semplice definizione di umorista, perché Fremura, nato nella città labronica nel 1936, è molto di più. Dopo gli studi classici «che – dice – gli hanno aperto il cervello» si è laureato anche in Economia e Commercio. «Tutti mi dicevano che non avrei potuto campare solo con l’arte. Io l’ho presa come una sfida personale, lavoravo tutto il giorno, poi quando tutti dopo Carosello andavano a letto io continuavo a lavorare. La mia sfida credo di averla vinta».

I modelli e ispiratori della sua arte sono stati Jacovitti, col quale ha intessuto un rapporto epistolare, e Giovannino Guareschi, che fu poi grande estimatore dei suoi quadri e delle sue vignette.

Dal 1972, anno in cui ha cominciato a catalogarli, sono 1860 i suoi quadri a olio sparsi per lo Stivale e per il mondo. Dice di aver prodotto almeno «tre ettari di vignette». La sua prima vignetta fu pubblicata su Il Travaso nel 1954. Nel 1962, ad appena 26 anni, vinse la Palma d’Oro al salone internazionale dell’umorismo di Bordighera, da allora le sue sferzanti vignette hanno cominciato ad apparire nei maggiori quotidiani italiani (Il Tirreno, La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Tempo, Il Giornale). Altrettanto intensa la collaborazione con i maggiori periodici italiani ed esteri: ha transitato su Il Borghese ai tempi di Longanesi, all’estero si è affermato collaborando con la più importante rivista umoristica inglese Punch come uno dei «world’s major cartoonist».

Le sue vignette sono apparse anche su Sipario, La Settimana Incom, i Gialli Mondatori, Segretissimo, Paris Match, New Yorker, Linus, Help, La peste. Nel 1969 fonda, insieme a Giuliano Nistri e Giovanni Isidori la rivista umoristica Allucinogeno. Fremura è anche scrittore e illustratore di libri: tra questi Nonna Minestra di Aldo Fabrizi, Italia purtroppo di Pietro Magi. Centinaia sono le copertine disegnate per libri di importanti scrittori e semplici narratori locali. Ha illustrato anche la Genesi, una pregiata edizione di Pinocchio in aretino e molti libri di fiabe. Ha poi partecipato in tutto il mondo ad importanti rassegne di umorismo grafico e ha dipinto murales di grandi dimensioni in diverse città italiane. «Di recente per esempio – ci dice – è venuto un siciliano che mi ha chiesto di disegnargli una mattanza di 4 metri. I miei musei preferiti sono i ristoranti, la banche, le aziende: mi commissionano i lavori e le mie opere me le ritrovo un po’ dappertutto».Senza contare – come ha descritto bene il suo amico Ettore Borzacchini, alias Giovanni Marchetti – tutte quelle opere come «quella per un amico che me lo ha chiesto per la partecipazione della cresima della su’ bimba come si fa a dire di no». Recentemente ha vinto il premio alla carriera «Giorgio Cavallo», nel Comune di Moncalieri. In tutto questo mare magnum che è la sua opera artistica c’è però un piccolo problema, confida Fremura: «La sera, appena dopo il pasto, mi casca la testa nel piatto e m’addormento, anche se sono a cena dal Papa. La mi’ moglie è preoccupata e ora mi tocca anche prendere una pillola».