MARIO DEL SARTO: Lo scultore anarchico nella «valle dei mortai»
di Renato Bruschi
Il marmo, come una colata di neve, scende dalle pareti delle montagne e trasforma il paesaggio in un ambiente incantato, soprattutto la notte, quando la luna riflette l’argento sul biancore delle pietre. Il marmo, macchiato di sangue e sudore, vanto e ricchezza di Carrara, da secoli estratto dal ventre delle Alpi Apuane, invidiato, conteso, ricercato dai romani, dai grandi maestri medievali, da Michelangelo e oggi affidato alle multinazionali delle polveri. Quel marmo, ragione e senso di un’intera civiltà, di un popolo non ancora completamente snaturato dagli effetti della globalizzazione, è la materia prima dell’arte di Mario Del Sarto, scultore ma, prima di tutto, uomo, carrarese doc, cresciuto in perfetta simbiosi con il suo ambiente, dal quale attinge forza e lucidità di pensiero. Classe 1925, vive da ottantatré anni per 24 mesi è stato militare a Cassino nella conca selvaggia e aspra di Mortarola, una piccola valle lungo il corso del torrente Carrione.
Il suo «atelier a cielo aperto», dove le statue spuntano dalla montagna, come piante secolari, ricavate dai profili delle pareti, in un gioco di rimandi e somiglianze, si trova sulla strada che, da Carrara, conduce a Bedizzano e Colonnata. Dopo la località detta delle Canalie e la cava dell’Artana un castello naturale cinto da muraglie marmoree con striature oblique al termine di una dura salita, al visitatore si apre uno scenario inusuale, popolato da maestose figure bianche che ti fissano da lontano.
All’entrata campeggia la scritta Chi non si ferma davanti all’arte, di quel mondo non fa parte. E subito dopo trovi lui, l’artista dal cappello di paglia, che ti accoglie con i suoi modi schietti e risoluti. Mortarola è il luogo, dove un tempo si producevano i mortai, classici recipienti di marmo che servono in cucina, per pestare e sminuzzare gli alimenti. «Forse i miei genitori mi hanno concepito su un blocco di marmo » dice, sornione. Prima di iniziare a fare lo scultore, ha lavorato come frenatore e poi conducente della «Ferrovia marmifera», quella favolosa opera ingegneristica, costruita tra il 1876 e il 1890, che serviva per il trasporto su rotaia dei blocchi di marmo dai bacini marmiferi fino a valle e che è stata smantellata nel 1964. All’arte approda in età matura, a cinquant’anni, per istinto, prima con il legno e poi con il marmo. Parlando di sé racconta con orgoglio: «Ho iniziato a lavorare a otto anni. Ogni giorno, terminate le lezioni a scuola, aiutavo mio padre, pastore di pecore sulle Apuane. Davanti a casa mia, la notte, passavano squadre di cavatori e lizzatori, che salivano in cava con passo cadenzato e con le scarpe chiodate. I lizzatori dovevano lavorare alle prime luci dell’alba, perché il sole cocente avrebbe riscaldato il legno della slitta e la carica di marmo sarebbe diventata pericolosa».
Mario del Sarto ama definirsi uno «scultore anarchico»: non lavora su commissione, non vuole «padroni» col fiato sul collo, segue il filo della sua inesauribile creatività e quando è stanco, si ferma a guardare il cielo. «Ho iniziato a scolpire il legno, andando alla ricerca di radici e alberi adatti ad essere lavorati. Appartiene a quel periodo l’opera La fratellanza del mondo, ricavata da due rami di platano riuniti in un solo tronco». E già da allora si intravede quella che sarà la sua peculiarità tecnica: assecondare le forme racchiuse nella materia, consapevole, alla maniera michelangiolesca, che l’opera d’arte consiste nel togliere il «soverchio», la parte inutile che nasconde la figura imprigionata. Nel 1983 partecipa al «Simposio internazionale di scultura», rappresentando un soggetto di grande attualità, L’uomo cassintegrato. Le figure che si ergono nel suo museo all’aperto, afferma con orgoglio, «sono ricavate da marmo di scarto, quello che si stacca naturalmente dalla montagna o deriva dalla lavorazione dei blocchi. Non amo neppure quelli squadrati perché non hanno più vita, sono già piegati dalla volontà dell’uomo». La sua arte è semplice e spontanea, le opere più narrative che rappresentative sono simili ad un libro che racconta una storia. Il linguaggio è volutamente privo di cerebralismi, un misto tra naif e arcaismo. «Quando inizio a lavorare lascio che il marmo mi parli da solo, che sia lui a guidare la mia mano. Non ci sono modelli davanti a me, nemmeno nell’immaginazione. Le figure devono emergere da sole, come per incanto».
Il suo intervento, l’impronta dell’artista, consiste allora nel raccordare i vari messaggi che si schiudono dalla pietra, dentro una cornice di senso, messaggi quasi sempre legati alla religiosità, insita nel cuore dell’uomo, alla speranza che illumina l’esistenza, ai valori dell’amicizia, della solidarietà, della fratellanza. Mario vive con i suoi gatti, in quella che hanno ribattezzato la piccola «Valle dei Re» o «La tana dell’artista». Accoglie i visitatori, memoria vivente di un passato che non esiste più, e illustra le sue figure con le quali convive da anni. Sembra un solitario, eppure quando vai a firmare il «grande libro degli ospiti» ti accorgi che l’archivio è voluminoso e che sono migliaia le persone passate di qua. Purtroppo l’alluvione ha portato via parte delle sculture che si trovavano nel retro del suo laboratorio e il torrente minaccia di erodere ancora altri spazi. L’appello va agli amministratori: «Presto potrebbe rimanere ben poco fa notare dispiaciuto se non si corre ai ripari, se non si interviene con la costruzione di un argine adeguato». Uomo libero e incontaminato, amante della libertà, «anarchico» nel senso più nobile del termine, Mario Del Sarto è un pezzo di storia della città e da Mortarola continua ad inviare, attraverso il marmo, i suoi messaggi di fratellanza.