SEGGIO ANTONINI: Il compagno di prigionia di Giovannino Guareschi

di Giacomo Cocchi

«Al campo di concentramento di Sandbostel c’erano tanti italiani, ho conosciuto molte persone in prigionia, tra questi c’era anche un uomo che la sera ci rallegrava leggendoci alcuni racconti scritti di suo pugno. Era Giovannino Guareschi». In cinque anni, dal 1940 al 1945, come molti altri giovani italiani della sua generazione, ha vissuto avventure che non dimenticherà mai. Adesso, a 92 anni, davvero ben portati, con estrema lucidità Seggio Antonini ha deciso di mettere nero su bianco la sua storia di ufficiale dell’esercito italiano scampato agli orrori della seconda guerra mondiale. Il suo nome è proprio «Seggio», come quello elettorale, ma in realtà il riferimento alle urne è casuale, anzi «fu un errore – dice Antonini – mio padre all’anagrafe disse “Sergio” e loro capirono male. E così questo strano nome mi accompagna da quasi un secolo». Nato nel 1908 a San Giuliano Terme, ma pratese d’adozione (più avanti spiegheremo il perché) Seggio da alcuni mesi si sta cimentando nella scrittura di racconti dedicati a quel difficile e indimenticabile periodo della sua vita. «Siamo a quota quaranta – spiega – e le cose da raccontare sono ancora tantissime». Prima di partire soldato i sogni di Seggio sono quelli di diventare professore di lingue. «Studiavo all’università a Venezia, avevo già dato 14 esami ma lo scoppio della guerra interruppe i miei studi e le mie speranze».

Tante le persone incontrate in quei cinque anni passati lontano da casa, tra questi c’è anche il padre di Peppone e don Camillo, lo scrittore emiliano Guareschi che Antonini conosce nel nord della Germania nel campo di Sandbostel. «In prigionia – racconta Antonini – la vita era dura, in un anno ero dimagrito di quasi 50 chili, sembravo uno scheletro. Ci mancava tutto. Tra i pochi conforti c’erano le storie che il Guareschi ci leggeva alla sera». Lo scrittore al mattino prendeva carta e penna e scriveva di «vicende domestiche», raccontava della sua famiglia, della moglie e dei figli, storie che aiutavamo i soldati prigionieri a lenire i dolori per la mancanza degli affetti. «E non era il solo, c’era anche un professore della Bocconi di cui non ricordo il nome che recitava le poesie del Pascoli». Per Seggio il campo tedesco arriva dopo esser stato internato per cinque mesi, a cavallo tra il ’43 e il ’44, in un campo in Polonia a cento chilometri dal confine russo. «C’erano 30 gradi sotto zero e si mangiava solo rape secche. La vigilia di Natale stavamo per morire di stenti. Un ufficiale tedesco di origine altoatesina ci disse in italiano: “Se cadete a terra sarete fucilati per diserzione”. Io non ce la facevo più e così mi lasciai andare. “È finita” pensai, ma per fortuna il mio gesto forse fu preso come una sfida e mi risparmiarono». Durante il trasferimento a Sandbostel Antonini e compagni si fermano ad Amburgo, città distrutta dai bombardamenti alleati. «Ci misero a levare corpi e calcinacci, una esperienza terribile, vidi migliaia di morti».

Come riuscì a sopravvivere? La salvezza per Antonini arriva grazie ad una offerta di lavoro. Mentre era in Germania alcuni ufficiali tedeschi chiesero ai prigionieri chi fosse interessato a lavorare i campi. «Io mi offrii – ammette Seggio – nonostante le offese e gli sputi che arrivavano a coloro che si mettevano a “servizio” dei tedeschi». Anche se smagrito e debole inizia a fare il contadino presso un podere vicino. Studente di lingue, Antonini conosce perfettamente il tedesco e così ascolta la radio che si trova nella casa dove lavora. «Mi sintonizzavo su Radio Londra, così potevo sapere cosa stava realmente succedendo sul fronte; i tedeschi nascondevano la verità a tutti, prigionieri e cittadini».

Con lui nei campi c’è anche un russo, vuole sapere e dire ai compagni a che punto era la guerra. «Per comunicare con lui usai il latino». Il latino? «Sì, io non sapevo il russo, né lui l’italiano e tantomeno il tedesco. Entrambi avevamo studiato latino a scuola e così gli scrivevo bigliettini con le notizie nella lingua di Cicerone e Virgilio».

Nel ’45, finita la guerra Seggio dopo varie peripezie si trova a Nordhorn, al confine tra Germania e Olanda. «Ero ancora prigioniero ma i controlli erano molto allentati, così pensai di tornare in Italia. A piedi». Seggio scrive su un cartello: «Sono un tenente italiano e voglio tornare a casa, chi viene con me?». Un giorno, all’alba, si presenta un ufficiale veneto con lo zaino sulle spalle e così partono. I due dopo 18 giorni, e con una media giornaliera di 60 km, camminano fino a Innsbruck in Austria, di lì in treno a Bolzano. «Giunti in Alto Adige siamo stati accolti da personale dell’Onarmo, l’opera di assistenza religiosa e morale degli operai, che ci sfamò e ci caricò su camion predisposti per riportare a casa i soldati».

Perché poi venne a vivere a Prato? «Per amore – conclude Antonini –. Ho sposato una “madrina di guerra”». Chi sono? «Le “madrine” erano delle corrispondenti, delle amiche di penna che scrivevano ai soldati in guerra per essergli vicini e dare coraggio. Lei era pratese, la cercai per ringraziarla. Appena l’ho vista mi sono innamorato e così è diventata mia moglie».