LIONETTO FABBRI: Il «re» del documentario

di Sara D’Orianocon la collaborazione di Marco Pagni, Movie and Sound Firenze

La sua vita scorre lenta e pacata in una casa al primo piano di uno dei tanti palazzoni condominiali di Firenze. Da qui poco traspare della sua girovaga e estrosa vita passata.

Lionetto Fabbri, classe 1924, pur nel suo attuale «anonimato» è una bella testimonianza della storia di Firenze e di un’Italia passata ma alla quale siamo tutti legati da ricordi familiari. Nei suoi occhi ancora vispi, nelle sue mani e nelle sue gambe fragili e lente si conservano ancora oggi memorie personali e storiche preziosissime.

Proprio come i suoi documentari.

La sua storia inizia presto. Molto presto. Inizia d’estate, accanto al negozio di giocattoli di gomma del padre, quello che aveva aperto a Viareggio e che gestiva insieme a un altro che teneva a Firenze.

Accanto a quel negozio, infatti, si trovava quello del fotografo Magrini, uno dei più famosi del tempo a Viareggio: «Mi piaceva chiudermi con loro nella camera oscura e vedere come sviluppavano e nascevano le foto. Trascorrevo molto tempo in quel negozio», racconta Lionetto.

Nacque così, insieme al suo primo lavoro stagionale, la passione per la fotografia: «Costruivo da solo le mie macchine fotografiche, con delle scatole e per obbiettivo usavo il fondo di vetro dei bicchieri». Aveva solo 13 anni. Di quel tempo, profondo è il ricordo del padre: «Non mi ha mai negato nulla, nemmeno quando gli dissi che volevo lasciare la scuola per lavorare. Era un uomo di grande fantasia e sensibilità. Non mi dimenticherò mai il giorno in cui mi regalò la Laika, modello standard, come dire una Ferrari oggi!».

Fu con quella che Lionetto iniziò a lavorare per Magrini: per 20 lire al giorno («la paga giornaliera di un buon operaio») iniziò a fotografare la Viareggio estiva degli anni 30, in passeggiata, al mare. Centinaia di volti immortalati di mattina, con i quali sviluppava foto in formato cartolina che il fotografo rivendeva il pomeriggio a 5 lire l’una. «Amavo fotografare. Facevo camere oscure ovunque. Quando saltava la luce in casa la mamma sapeva già che la causa ero io». E poi la camera oscura nella dispensa di casa: «Nessuno poteva prendere niente mentre sviluppavo. Era sempre una discussione».

La guerra riportò la famiglia Fabbri a Firenze, nel quartiere originario di San Frediano. Fu qui che il padre aprì, in via dei Cerretani, un conosciuto negozio di abbigliamento: «Mi venne in mente di metter su un laboratorio di scarpe in cuoio fatte a mano su misura». Tutta la nobiltà fiorentina si serviva dai Fabbri di via Cerretani: «Le nostre scarpe erano conosciute e apprezzate per la fattura e la qualità». Lo stesso Lionetto divenne abile calzolaio.«Dopo la guerra ripresi a fotografare, ma mi rendevo conto che non era più abbastanza. La fotografia era statica. Mentre il cinema no».

Da calzolaio a cinematografaro, proprio nella sua casa nel quartiere di San Frediano: «Avevamo un grande giardino a casa in cui decidemmo di realizzare un cinema estivo, all’aperto». Fu un successo, al punto che gli stessi abitanti del quartiere gli chiesero di realizzare un vero e proprio cinema chiuso, per l’inverno: era infatti l’unico cinema «di là d’Arno», un vera comodità che riuscì a reggere la concorrenza di altri anche più grandi che c’erano all’epoca in città.

È così che nasce l’arte del documentario di Lionetto Fabbri. A dare il via alle sue realizzazioni fu nel 1949 il presidente della Pontificia Commissione di Assistenza, Antonio Basetti Sani, che gli commissionò un documentario sui giovani ragazzi in vacanza nelle colonie. Nasce così «Colonie per l’infanzia».

Da qui e per trent’anni, Lionetto ha fatto leva sulla sua testardaggine e sulla sua curiosità, arricchita da una profonda conoscenza tecnica maturata con la passione per la fotografia, per realizzare documentari in Italia e all’estero. A interessarlo più di tutto l’uomo, il suo lavoro, la sua arte. L’ingegnosità di antichi mestieri che si stavano perdendo. Nascono così, alla fine degli anni 50: «Vetro verde», sulla lavorazione del vetro soffiato verde per la realizzazione di fiaschi e damigiane; «Gente del bosco» sui mestieri nei boschi della Maremma; «I mammalucchi», sull’arte delle statuine di gesso stampato realizzate in Garfagnana, a Bagni di Lucca; «Antico mestiere (I lavandai di Grassina)» per raccontare come avveniva il grande bucato a Firenze e poi ancora«L’arte del cesello», «Lavoro di tondo» fino ai due documentari «La lunga raccolta» girato in Calabria sulla raccolta delle olive da parte delle donne e «Gente lontana», realizzato alle isole Eolie sugli operai che estraevano la pomice dalla montagna. Furono proprio questi ultimi due a regalargli l’Orso d’oro al festival di Berlino: «Eravamo contenti, ma a dire la verità non eravamo completamente coscienti della portata di questi premi. Solo adesso mi rendo conto di quanto il nostro lavoro era stato importante. La tecnica con cui lavoravamo era all’avanguardia. Realizzai il mio primo documentario a colori nel 1951. Oltre a questo ebbi la fortuna di lavorare con artisti e tecnici di alto livello professionale». La voce dei suoi documentari era infatti quella di Emilio Cigoli, celebre doppiatore di John Wayne e Gary Cooper, solo per citarne alcuni. Le musiche di Carlo Innocenzi, Domenico Savino, Alessandro Alessandroni.

I documentari, della durata media di 20 minuti, che venivano trasmessi in abbinamento ai film nelle sale cinematografiche, conobbero anche una distribuzione all’estero, tanto che lo stesso Lionetto iniziò a girare il mondo: «Una volta vidi una foto della Malesia e sopra c’era scritto “Malesia magica”. Mi sembrò un ottimo titolo per un documentario, così andai da mia moglie Gabriella e gli dissi che avrei fatto un documentario laggiù». Dalla Malesia al Portogallo, alla Spagna per denunciare i massacri delle corride, passando dalle isole Fær Øer per documentare il massacro delle balene. A nessun continente mancò mai qualche metro di pellicola di Lionetto.

Fino al suo ritorno a Firenze per dedicarsi alla scrittura, un’altra grande passione di un uomo che ha sempre saputo innovare e reinventarsi. Peccato, viene da pensare lasciando quella casa in via Milanesi, che oggi su tutto scenda un pesante silenzio e che il valore preziosissimo della nostra storia, che passa attraverso quelle pellicole erose dalla muffa, sia affidato alla passione e alla pazienza di quei pochi che con un lavoro gratuito o poco remunerativo si impegnano a conservarla. In sordina.

Tra i lavori migliori anche due premiati con l’Orso d’oro al Festival di BerlinoRealizzati tra gli anni 50, 60 e 70, i documentari di Lionetto Fabbri sono una raccolta di documenti unici. Raccontano di luoghi e attività lontane nel tempo (ma non troppo) e nello spazio e diventano preziose testimonianze di vita vissuta. Un lavoro che nasce dalla curiosità di un uomo vispo e testardo, sempre alla ricerca del narrabile e del fotografabile. Eccone un brevissimo elenco:

Colonie per l’infanzia (1949) Primo documentario. Le caratteristiche vacanze al mare per centinaia di ragazzi italiani degli anni ’50. Atmosfere e volti resi ancora più remoti dall’effetto bianco/nero della pellicola. Girato in Italia.

Antico mestiere (I lavandai di Grassina) (1955) – Come avveniva il «grande bucato» di lenzuola e panni bianchi. Vecchi carretti e biciclette per la riconsegna in città. Tutto il lavoro di raccolta e momenti della lavatura e stenditura nella Firenze del 1955.

La lunga raccolta (1957) – Vita e lavoro delle donne negli immensi uliveti della Calabria. Dal mare d’olivi al frantoio. Personaggi e ambiente di grande forza emotiva.Vincitore del Gran Premio Orso d’oro al Festival di Berlino.

Gente lontana (1959) – Vita e lavoro dei cavatori della pomice nelle spettacolari isole delle Eolie. Una montagna arida e assolata, viene a poco a poco fatta franare per estrarre la pomice. Il duro lavoro è ritmato dal canto. Vincitore del Gran Premio Orso d’oro al Festival di Berlino.

Girati all’estero:

Uomo Uomo Uomo (1974) – Una ballata tragicomica in cui l’uomo è protagonista senza speranza di salvezza; un safari imprevedibile, a volte pericoloso, specie quando la macchina da presa non era gradita. Un film-reportage girato in oltre due anni di fatica e sacrifici viaggiando dai Mari del Nord al Medio Oriente, dall’Europa all’Africa a Singapore alla ricerca di una realtà dolorosa, buffonesca e violenta. «Il mondo è una grande rappresentazione in cui ognuno ha la sua parte ma pochissimi sanno recitare bene».

Uomini e balene (1975) – I vichinghi delle isole Fær Øer cacciano balene da una tonnellata. Intrappolato il branco in un fiordo gli animali non hanno più scampo. Sono arpionati, infilzati e fatti a pezzi. Un massacro proibito ma che avviene lo stesso con la tacita complicità del governo. Un capriccio per festeggiare la morte.

Alle cinque della sera (1979) – La corrida vista dalla parte del toro, che una volta entrato nell’arena non ha scampo. La cinepresa insiste sui tormenti inflitti all’animale, mentre il commento sentenzia che l’unica bestia feroce nell’arena è la folla.

(in collaborazione con www.casentino.toscana.it)