STEFANO MASSEI: l’ingegnere che ha salvato i 33 minatori cileni
di Francesco Paletti
Alla fine sì, lo riconosce anche lui che «quel 13 ottobre nel deserto di Atacama sarà impossibile dimenticarlo perché quando partecipi ad una missione per salvare vite umane, per forza di cose anche le prospettive e le emozioni cambiano». Parole di Stefano Massei, l’ingegnere pisano di 56 anni «per la precisione di Porta a Lucca puntualizza : anche se adesso vivo a Cascina, sono cresciuto fra via Randaccio e via Lorenzini a due passi dalla Torre» che ha contribuito al salvataggio dei trentatré minatori cileni rimasti intrappolati per oltre due mesi a più di 700 metri di profondità.
Un signore schivo e riservato che ha avuto un ruolo tutt’altro che secondario in un’impresa che ha commosso il mondo: erano tre, infatti, i piani messi in cantiere dal governo cileno per salvare i gli operai e tecnici bloccati sotto terra dal 5 agosto scorso. E uno di questi il «plan C» era coordinato proprio da questo ingegnere di Enel Green Power: 18 anni a Larderello e nella geotermia toscana e poi in giro per il mondo a fare perforazioni per il colosso energetico italiano prima California, Francia e Olanda; poi El Salvador e Cile che lo hanno fatto diventare uno dei maggiori esperti al mondo nel settore delle perforazioni geotermiche. Inevitabile che le autorità di Santiago abbiano pensato anche a lui quando, il 22 agosto, hanno avuto la certezza che i 33 minatori erano ancora vivi, anche se bloccati in una camera nelle viscere del deserto di Atacama.
Il 28 dicembre a Firenze il Presidente della Regione Enrico Rossi gli ha consegnato il Pegaso d’argento: «Ecco la Toscana migliore, l’esempio del lavoro toscano nel mondo», ha detto il governatore al momento della premiazione. Il giorno dopo a Pisa, invece, ha ricevuto la Torre d’argento direttamente dalle mani del sindaco Marco Filippeschi: «Un riconoscimento simbolico che vuole testimoniare la stima di tutta la città nei confronti di un pisano che ha messo a disposizione le grandi competenze tecniche acquisite all’Università di Pisa e le conoscenze specialistiche ottenute in anni di lavoro nella geotermia del nostro territorio per salvare vite umane», ha detto il primo cittadino durante il ricevimento a Palazzo Gambacorti. Premi e complimenti che quasi hanno imbarazzato questo ingegnere riservato, abituato a lavorare lontano dalla ribalta mediatica: «I riconoscimenti e le parole di stima fanno sicuramente tantissimo piacere, ma non mi sento affatto un eroe dice : è vero che è stata una vera e propria corsa contro il tempo perché in ballo c’erano delle vite umane da salvare e ogni giorno guadagnato sarebbe potuto essere decisivo, ma per quanto riguarda il mio ruolo io non ho fatto altro che mettere a disposizione le mie conoscenze: il lavoro che abbiamo svolto, dal punto di vista tecnico, era molto simile a quello che, con Enel Green Power, ho effettuato molte altre volte. Con la differenza, certo tutt’altro che secondaria, che stavolta dovevamo tirar fuori delle persone rimaste bloccate a 800 metri di profondità e non perforare le viscere della terra per raggiungere i giacimenti di energia termica».
Un lavoro «normale», dunque. Eppure tutt’altro che semplice: «La difficoltà maggiore è consistita nel fatto che abbiamo dovuto realizzare un pozzo cosiddetto direzionato, ossia che scendeva in verticale fino ad ottanta metri di profondità e poi deviava verso le gallerie in cui si trovavano intrappolati i minatori spiega Massei . Una scelta obbligata dato che dovevamo prima di tutto allestire un piazzale per il posizionamento degli impianti di perforazione, macchine molto grandi che avevano bisogno di una superficie ampia circa quanto un campo di calcio e che, vista la morfologia accidentata della zona, era possibile ricavare solo in poche e delimitate aree». Settimane di lavoro intenso fino all’atteso, ma tutt’altro che scontato lieto fine: «Quando le trivelle del piano B sono giunti a poca distanza dal rifugio in cui si trovavano i minatori, ci siamo concentrati totalmente su questo progetto ricorda l’ingegnere pisano : dopo aver fatto tutte le analisi e le valutazioni del caso, abbiamo deciso di rivestire il pozzo con tubature metalliche soltanto nella sua parte più critica in modo da anticipare il più possibile le operazioni di salvataggio. È stata una scelta forse un pochino rischiosa, ma che si è rivelata giusta: il 14 ottobre tutti gli operai e i tecnici hanno potuto riabbracciare in anticipo rispetto ai tempi previsti i loro cari che li attendevano da mesi al Campamento Esperanza, a poche centinaia di metri dall’ingresso della miniera. Ce l’avevamo fatta». Il «lavoro» era finito: «Mi sono messo un po’ in disparte e ho partecipato un pochino alla loro gioia, quella di gente semplice che tornava alla vita dopo due mesi di incubo. Mi hanno anche chiesto di fare una dedica e firmare il quaderno di coloro che hanno partecipato alle operazioni di salvataggio, pensi lei ». Già, «strana» richiesta, per uno che in fondo ha messo a disposizione «solo» le sue conoscenze tecniche per salvare 33 vite umane.
L’incubo inizia esattamente il 5 di agosto quando il crollo di un pozzetto isola sotto terra i 33 minatori di turno in quel momento. Le ricerche e i soccorsi partono immediatamente, ma di loro non si sa nulla per almeno due settimane tanto che il 12 agosto arriva il più nefasto degli annunci: «Le speranze di trovare qualcuno dei lavoratori ancora in vita dice il ministro delle miniere Lorenzo Goldborne sono ridotte al lumicino». È il momento peggiore, che dura dieci lunghissimi giorni. Fino al 22 agosto quando una sonda, spedita ad oltre 800 metri di profondità, torna con un messaggio: «Siamo tutti vivi, dentro il rifugio».