GERMANO SBROLLI: Il leader amiatino delle lotte in miniera
di Francesco Giannoni
«Sa come si dice fra noi minatori? A 20 anni in miniera, a 50 al cimitero!». Germano Sbrolli, di Piancastagnaio sul monte Amiata, quasi scherza su questo drammatico proverbio: sarà che a scavare ha cominciato a 34 anni, saranno stati il caso o il buon Dio, comunque lui è arrivato a 91 anni, come non sentendoli, almeno in apparenza. Agile e svelto, memoria di ferro, occhi arguti e incredibilmente limpidi, voce squillante e una velocità di parola che «mitraglietta» è lui, altro che Mentana.
Ha lavorato nelle miniere amiatine di cinabro (da cui si ricava il mercurio) dal 1954 al 1975. Ce n’erano 6-7 dentro questo vulcano spento. Ora sono chiuse, «per fortuna, perché sono tanto pericolose; ma di mercurio nella montagna ce n’è ancora quanto ne vogliono».
Cominciarono gli Etruschi a estrarlo per lavorare l’oro. Lo sfruttamento intensivo cominciò nei primi decenni del XIX secolo a opera di un ingegnere tedesco. Successe che una frana di notevole portata aveva scoperto una vasta superficie di terra, ricca di cinabro. Questo ingegnere («misantropo, lavorava da solo, se lo immagina?») cominciò a setacciare la terra e con il sistema dei forni a cupola, come quelli delle carbonaie (uno strato di terra e uno di legna, e così via fino a chiudere la cupola con zolle capovolte), ricavò 3000 chili di mercurio. Da tutta Europa si riversarono qui.
A quei tempi in miniera lavoravano anche le donne che risalivano dal pozzo tenendo sulla testa le cestine con il minerale: «Poverine, roba da pazzi, perché il cinabro pesa, eh! Una bottiglia di mercurio è più di 13 chili». Germano mi racconta e mi spiega tutto, proprio tutto: nomi, fatti, tecniche; lo devo frenare, la sua memoria è infinita, ma quella del registratore no.
All’inizio non ci voleva andare in miniera; poi c’entrò quasi per ripicca: «Con tanta gente che sta a litigare per andarci, altri ci rinunciano? D’ora in poi voglio esserci anch’io». Il primo giorno, a lui e agli altri novizi, i capi fecero una bella paternale: di compiere il proprio dovere, ma anche di stare molto attenti. Gli dettero subito la lampada ad acetilene, indispensabile: «Sa, di notte fuori qualcosa si vede, ci sono dei punti di riferimento, una torre, un albero, un viottolo. Ma laggiù è tutto uguale. Se si spegne la lampada, fermati dove sei, resta lì. Se non hai da accenderla, aspetta qualcuno che venga a farlo. Se cammini, rischi di farti male, puoi trovare un fornello, puoi sbattere la testa contro una parete, puoi volare in un pozzo e ammazzarti. Non vedi a 10 centimetri; sei cieco, completamente!».
In miniera i rischi affratellavano gli uomini. Magari c’erano l’antagonismo per guadagnare qualche lira di più, i dissapori politici, ma «all’occorrenza eravamo tutti come fratelli. Guai se non fosse stato così! Bastava una negligenza da niente e si moriva».
La maggior parte delle morti «violente» avveniva perché qualcuno cadeva nel pozzo: «Al pozzo non basta il bernoccolo, vuole la vita». Succedeva soprattutto, quando, a testa bassa, il minatore spingeva sulle rotaie il vagone carico anche di 18 quintali di minerale. Arrivava alla gabbia (una specie di ascensore che scorreva perpendicolare lungo il pozzo) per risalire in superficie; se per una manovra sbagliata la gabbia non c’era, il carro cadeva nel pozzo e il minatore, aggrappandosi istintivamente al vagone, ci cadeva dietro. «Nel pozzo fai un volo di 3-400 metri scontrandoti con sbarre, divise, traverse, guide. Quando arrivi in fondo, Madonna mia, sei a pezzi».
Un’altra causa di morte erano le mine, di color bianco per poterle vedere meglio, giù al buio. Un giorno ne furono posizionate parecchie; prima che esplodessero l’arganista tirò su la gabbia, convinto che dentro ci fosse il minatore che le aveva sistemate; «invece no, l’aveva lasciato giù insieme alle mine, e non potemmo far nulla. Quanto avrà sofferto quell’omo con 16 mine accese e senza possibilità di scappare da nessuna parte ».
Quando succedeva un incidente, tutti volevano andare a casa per tranquillizzare le famiglie. Ne accadde uno mortale, ma l’ingegnere rifiutò di far tornare i minatori. Germano, fin dagli inizi capace di tener testa a superiori e proprietari, gli fece «una bella canata: se arriva ai paesi la notizia dell’incidente, che alle miniere c’è i morti, ma si rende conto del pandemonio che mette fuori? Anzi, faccia venire i pulman per portarli a casa!».
Un momento, invece, quasi epico fu verso la fine del 1958: per dirimere una vertenza con la proprietà, Germano guidò l’occupazione della miniera al termine del turno. Era il 27 ottobre; e lui, insieme con gli altri ci rimase per 16 giorni. Per prima cosa scavarono un braccio di galleria di 7-8 metri per collegare due miniere ed essere un numero maggiore di minatori, in totale circa 200.
Germano disse subito ai compagni di non provocare danni alla miniera, perché poi avrebbero dovuto ripagarli i minatori che, oltretutto, sarebbero passati dalla parte del torto.
Anche se si autodisciplinarono, distribuendo compiti a ciascuno, fu dura: «Chi piangeva, chi rideva, chi bestemmiava, chi pregava, chi leticava, chi se la faceva addosso dalla paura, chi giocava a carte o a morra, chi raccontava barzellette, chi dormiva giorno e notte. Ogni tanto si andava a un livello superiore per respirare aria migliore. Per calmarli, quante gliene dissi, quante gliene inventai».
Il giorno dei Santi, Germano chiese che fosse celebrata la Messa giù, in miniera, «anche per attirarsi le simpatie del clero». Aveva un amico, don Francesco Mascalzi, cappellano militare; questi arrivò portandosi la valigetta da campo con i paramenti, ma non gli fu permesso di scendere. Parlarono al telefono, e il religioso suggerì a Germano di scrivere una lettera per denunciare l’accaduto: «Raccontalo, ma allo stesso tempo, drammatizza».
E Germano scrisse quanto riportiamo nella colonna a destra. Fuori, a parecchi spuntarono le lacrime. Alla fine il prete disse Messa all’esterno, in superficie, con gran parte della popolazione dei paesi vicini che assisteva; i minatori, sotto, furono avvertiti dell’elevazione dal trillo del telefono.
Grazie all’azione della Cisl e del governo, presieduto da Fanfani, le richieste dei minatori furono accolte. Al termine dell’occupazione, l’11 novembre, «quando uscii fuori con l’ultima corsa, anche se non volevo fui accolto come il Padreterno. La Cisl mi propose di entrare in commissione interna. Ci sono rimasto fino a quando sono andato in pensione».
Nel libro è anche riportata la foto della lettera scritta durante l’occupazione del 1958 e ricordata nell’articolo a lato, qui trascritta integralmente.
Ancora una volta il padrone ha sbandierato questo cinismo di barbara oppressione che ha nel suo animo.
Ricordando in questo memorabile giorno d’amore e d’affetto per quei nostri padri morti [di] silicosi o sbrindellati da una mina o crollo di pozzo avremmo voluto commemorarli solennemente come è di dovere e decoro, ma chi ha chiesto e voluto da questi la vita, da noi vuole pure la libertà. Non ha voluto la Messa in miniera, ma la nostra attenzione non si distoglie dai nostri morti perché per quanto sepolti lo siamo. Siamo uomini e non strumenti come ci vorrebbe il padrone. Siamo uomini. Ed anche lui è un uomo e responsabile delle proprie azioni spirituali. Azioni di dubbia coscienza.
Amici, noi siamo consci del dovere che ci spetta e sappiamo che il nemico è aguerrito [sic], ma la nostra volontà di lotta e il nostro slancio travolgerà ogni ostacolo per porre [la] parola fine a tanti abusi di dittatura. Dittatura che non si accontenta di quanto è nostro materialmente e moralmente ma vuole combatterci anche spiritualmente come ai tempi dei vari neroni, diocleziani e massenzi. Fratelli del di fuori, non temete che tutti noi dell’interno nonostante tutto saremo degni dei nostri padri defunti in miniera e porteremo a termine a qualunque costo l’opera che questi hanno iniziata con tanto eroismo.
I minatori dell’interno