MARIO PIERACCIONI: «I’ Guardia» del Trebbio
di Sara D’Oriano
Tutti lo chiamano «I’ guardia», quasi dimenticandosi il suo vero nome, perché nel castello del Trebbio ci è cresciuto divenendone una vera e propria istituzione, al pari della storica residenza.
Mario, questo il suo vero nome, al Trebbio ci è arrivato nel 1953 e da allora non si è mai mosso dai confini del castello, che ha sempre protetto, controllato e curato. E proprio davanti al castello lo incontriamo e lo riconosciamo immediatamente, grazie all’inconfondibile divisa che indossa, da uomo d’altri tempi, con la mimetica, gli stivali e il cappello con la piuma, circondato dalla stessa particolare aura che avvolge il bel castello a 15 chilometri da Firenze.
Impossibile parlare del Trebbio senza fare riferimento a lui e viceversa perché è come se fossero davvero una cosa sola. Mario è testimone diretto del passato recente del castello, il quale è custode di tutta la vita del suo guardiacaccia. «Sono arrivato qui di domenica, era il primo agosto 1953. Avevo iniziato a fare il guardiacaccia nel 1949, da un’altra famiglia, poi, l’allora proprietaria del castello, una vedova tedesca, mi chiamò qui e io mi trasferii. La prima cosa che feci fu girare i confini della proprietà, perché in questo modo potevo avere sotto controllo tutto».
Chiamarlo guardiacaccia, ci rendiamo subito conto, è riduttivo. Tra i suoi compiti non c’era solo quello di gestire le proprietà e organizzare le battute di caccia del sabato e della domenica. A lui, infatti, spettava la supervisione di ogni attività che si svolgesse all’interno del castello e delle sue terre. «Qui intorno abitavano 19 famiglie di contadini e ognuna lavorava all’interno delle terre del castello. La proprietaria, la signora Sinelli, veniva solo durante l’estate. Io quindi dovevo fare le sue veci nei momenti dell’anno, la maggior parte, in cui lei era assente». La vendemmia, la raccolta delle olive, la potatura delle piante erano solo alcune delle attività che Mario supervisionava e controllava. A lui spettavano tutti quei lavori, fuori e dentro del castello, che definiremmo di «ingegno», l’arte dell’arrangiarsi con le poche risorse a disposizione e con l’esperienza maturata nel tempo. Un fardello di conoscenze che poi Mario ha regalato e continua a regalare alle nuove generazioni succedutesi nel castello, così come a tutti coloro che sono ben disposti ad ascoltarlo.
«Per undici anni ho abitato nel castello da solo, lassù in quella stanza che vede al primo piano. Avevo il divieto di matrimonio, non potevo nemmeno fidanzarmi, e questo mi è pesato molto». Con poche ma soppesate parole, Mario racconta i primi anni tra le mura della storica dimora: «Non c’era la corrente e la sera mi muovevo con il lume a olio che, quando aprivo le porte, si spengeva sempre. Non è stato facile all’inizio. Soffrivo molto la solitudine e il castello era davvero grande. L’unica compagnia che avevo era quella della fattoressa, la donna incaricata di fare da mangiare e badare alla pulizia e all’ordine delle sale interne, una brava donna, ma che non riempiva la sofferenza di quei tempi».
Un letto fatto di foglie di granturco, che «al minimo spostamento crocchiavano tutte» e poco altro fino all’arrivo del dottor Gatti, nei primi anni Sessanta, che acquistò il castello e ci abitò con le figlie. «Cominciavo a diventar vecchio e chiesi al dottor Gatti se potevo prender moglie. Lui mi rispose, e non me lo dimenticherò mai, Mica siamo più nel medioevo!, così conobbi Beatrice, che abitava in paese, a Santa Brigida, e la sposai nel giro di due mesi. Il dottore mi permise di andare ad abitare con lei appena fuori dal portone del castello, in un piccolo appartamento che mi fece appositamente rimettere a posto. Ci abbiamo abitato insieme per 45 anni, io ancora ci abito. Beatrice è stata molto brava, perché mi è sempre rimasta accanto e, come me, non ha mai desiderato allontanarsi da Trebbio».
In quegli anni iniziò per lui anche l’allevamento dei fagiani: «Li abbiamo tenuti per circa 15 anni. Io badavo a loro, li nutrivo e sistemavo le voliere e poi organizzavo le battute di caccia con le famiglie. Era un modo per condividere il tempo e stare insieme. Per me un grande impegno, che però facevo volentieri. In quel periodo, il dottor Gatti mi comprò anche un cavallo, con il quale giravo agilmente per tutte le proprietà. È stato molto generoso con me».
«Quando ho iniziato era cosa usuale che le grandi proprietà avessero 4 o 5 guardiacaccia. Esisteva anche un ufficio apposito in via Condotta, a Firenze, al quale potevamo rivolgerci per rinnovare i porti d’arme e tutti i permessi. Adesso non esiste più nulla e io sono una rarità!».
Una rarità anche per la sua ricchezza interiore: «Essere guardiacaccia significa anche quasi diventar discretamente parte della famiglia per cui lavori, e mi è sempre piaciuto prendermi cura dei figli dei proprietari». Ne è conferma Anna, una dei cinque figli del terzo proprietario del castello per il quale Mario ha lavorato: «Con Mario c’è sempre stata una grande complicità, quando eravamo piccoli con i miei fratelli, ci accompagnava ovunque e ci veniva a riprendere. Ci ha insegnato ad accendere un fuoco, spostare le botti in cantina, ci ha insegnato tanti trucchi e segreti del castello. Per noi è davvero un secondo padre, insostituibile e voglio che anche per i miei figli sia così».
E se qualcuno gli chiede come giudica la sua vita «I’ guardia» risponde: «La mia vita è stata quasi un sogno, perché è volata via veloce, serena tra le mura di questo castello, che è tutto il mio mondo».
A raccontare della sua lunga e anche travagliata storia rimangono alcuni importanti dettagli, nello splendido chiostro centrale, nelle vecchie cucine e nei suoi saloni, dove si rimane decisamente ammaliati dalla bellezza dei camini originali. Il castello è divenuto famoso perché al suo interno, nel 1478, fu organizzata la famosa «congiura dei Pazzi», con la quale i membri della famiglia intendevano eliminare i loro grandi avversari, Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Fallita la congiura, il castello fu espropriato ma rimane traccia dei suoi vecchi proprietari, grazie allo stemma della famiglia, che si trova scolpito nell’ingresso del castello, all’interno del cortile, e che si è salvato dalla distruzione perché, leggenda vuole, fu il maestro Donatello a realizzarlo.
Imponenti travi e squisiti particolari, come la sala dove sono dipinti tutti gli stemmi delle famiglie proprietarie del castello, rendono suggestiva e ancora viva la sua storia, regalando uno scorcio particolare e sicuramente pieno di fascino della vita che qui si svolgeva in tempi passati.
Succeduto a diversi proprietari, oggi il castello del Trebbio, che conserva intatto il portale medievale originale, appartiene alla famiglia Baj Macario, che lo acquisì nel 1968. Nonostante i suoi proprietari abitino all’interno, è possibile visitare alcune delle sue stanze prenotando delle visite guidate che i Baj Macario offrono insieme alla degustazione dei vini e dell’olio che la famiglia produce nei 350 ettari che circondano il castello.
Le cantine del XII secolo, realizzate nelle fondamenta del prezioso castello, infatti, vengono ancora oggi utilizzate per produrre e invecchiare il cosiddetto «Pazzesco» all’interno di botti pregiate costruite sul luogo e conservano l’olio prodotto dai 10 mila olivi di proprietà. Il castello del Trebbio, per quanto poco conosciuto e fuori dai normali tracciati turistici, offre un’occasione molto suggestiva e particolare di vivere Firenze, regalando intatto lo spirito con il quale fu costruito, per essere dimora abitata e viva e non semplice museo. I suoi proprietari mettono infatti a disposizione il castello per ricevimenti e matrimoni e propongono qui un piacevole soggiorno grazie alle antiche case coloniche, allestite ad agriturismi. Il tutto, incredibilmente, a 20 minuti dal cuore di Firenze (www.vinoturismo.it).