MARCO ESPOSITO: Genitore di un figlio dell’ottavo giorno

di Massimo Orlandi

Divento babbo. Sono le tre del pomeriggio ed è ormai questione di minuti. Divento babbo, lo so perché la porta della sala parto si è sta aprendo. Divento babbo. Ma perché le infermiere che passano non sorridono? Perché il medico che ora esce è così agitato? Perché, invece che dirmi «complimenti», smozzica una parola che assomiglia tanto a «problema»?

«L’ottavo giorno Dio fece George. E vide che era buono». Comincia così un delicato film belga di alcuni anni fa. George è il bambino down protagonista della pellicola. Il film ce lo racconta e ci fa capire perché Dio, dopo essersi riposato, ha inventato un ottavo giorno proprio per lui.

Il giorno in cui Marco Esposito diventa babbo appartiene alla stessa categoria. È un giorno inquieto, agitato, ma lo è per definizione, perché non capita spesso di diventare padre. Solo che per Marco, quel giorno l’inquietudine non riesce a trasformarsi in sollievo. Dall’ospedale di Fiesole dove è nato, il piccolo Alessandro viene trasferito al Meyer, da una sala parto si sposta in una camera operatoria. Il giorno finisce con Marco che continua a penzolare su un punto interrogativo. Indeciso se volersi appoggiare su una risposta. E forse sarebbe meglio aspettare ancora piuttosto che sentire le parole che arrivano nel cuore della notte: «Suo figlio ha la spina bifida, una grave lesione del sistema nervoso periferico»

14 settembre 1990. L’ottavo giorno di Alessandro. E il primo del suo babbo.

Una storia. Ce ne sono tante così. Storie che spesso si nascondono, per il peso della fatica, per l’angoscia che suscitano soprattutto in chi le ascolta. Marco no. La bellezza di quest’uomo che ora è padre da vent’anni, è nel modo in cui è riuscito a passare dentro la strada della vita che d’improvviso, in un solo giorno, si è fatta stretta. E lo ha fatto esponendosi alle difficoltà, ma riuscendo a trasformarle in opportunità di crescita umana, per sé e per la sua famiglia.

«Ci sono umiltà che ingrandiscono un uomo» ha scritto Erri de Luca. Proprio così.

«No, non è stato facile, soprattutto all’inizio – racconta Marco – Alessandro aveva bisogno di tante attenzioni, di tante cure, di tanti controlli: nei primi anni di vita ha dovuto sopportare almeno una decina di interventi chirurgici importanti. Eppure, se provo a metabolizzare questi aspetti pratici, quello che sento, nel profondo, è che la mia vita, la mia vita con Alessandro è stata proprio una bella vita».

Di professione Marco è un ufficiale dell’Esercito. Lavora all’Istituto geografico militare. E probabilmente per l’orizzonte della sua vita pianificava confini più rassicuranti. Ma si è fidato lo stesso, anche quando quei confini sono saltati. «Alessandro mi ha insegnato a guardare il bicchiere mezzo pieno. Lui non è la spina bifida, non è la malattia. È un ragazzo splendido con cui condividere interessi, giochi, viaggi, con cui chiacchierare, con cui ridere. Non l’ho mai sentito recriminare per la sedia a rotelle, per esser contento gli basta una partita alla playstation. Questo è il suo modo di vivere, un modo che Alessandro mi ha insegnato a seguire».

L’arrivo di un figlio cambia gli equilibri di ogni famiglia. Se quel figlio ha una disabilità quegli equilibri rischiano di essere travolti. Anche in questo è prezioso ascoltare Marco. Perché se lui e sua moglie Mariacristina sono rimasti saldamente insieme, è perché hanno saputo reinventarsi come persone, e come coppia. «Di solito quando si pensa a due persone che stanno insieme e si amano, l’immagine è quella delle due metà che si completano. Noi non abbiamo potuto permetterci di essere così. Ciò che ci è stato richiesto è stato di essere due persone a tutto tondo, in simbiosi, ma distinte. Perché tutti e due dovevamo riuscire a essere colonne portanti dello stesso tetto».

In questo tipo di cammino, con questa consapevolezza così condivisa, non suonerà strano che, a un certo punto, sia di nuovo transitata la cicogna. Questa volta per portare una sorellina ad Alessandro. «All’inizio ci siamo detti, mai più. Dopo un anno la risposta era già diventata… chissà. A quattro anni dalla nascita di Alessandro è arrivata Chiara. Con un pensiero ben definito in noi: non nasceva per diventare la stampella del fratello, non sarebbe mai stata la sua infermiera. Chiara nasceva perché noi volevamo lei».

Normalità. Una parola che suona strana in questo contesto. Ma in fondo ci vuole, perché è proprio quella che Marco evoca a pelle. E può servire, usarla, almeno per disarmarci da quello strato di pietismo banale che spesso finiamo per trasmettere, anche solo con lo sguardo, a chi ha un figlio diversamente abile.

È normale anche lui, normale la sua vita. Normale come ogni vita. Cioè straordinaria. «Noi non vorremmo che le persone ci pensassero per sottrazione, che pensassero a noi per ciò che non possiamo fare. Alessandro non può questo, non può quello: è un concetto che lo riduce, che ci riduce. Pensiamo invece a quello che la nostra famiglia, e le famiglie di ragazzi come Alessandro possono dare: noi sappiamo essere allegri, sereni. E la vita dei nostri ragazzi è bella, soprattutto se possono sperimentare la vicinanza degli altri. Non pensiamo sempre al fatto che sono su una sedia a rotelle. Pensiamo a quanto sono simpatici quando raccontano una barzelletta».

A sera, come ogni babbo, Marco prima di dormire dà la buonanotte a suo figlio. «È un momento bellissimo, Alessandro mi infonde calma, mi trasmette pace».

Un padre e un figlio, nel silenzio di un respiro. È la vita. Quando riusciamo a lasciarla parlare.

Spina bifida, un’associazione per le famiglieLa spina bifida è una malformazione congenita causata da una non perfetta saldatura della spina dorsale nel feto, che provoca lesioni più o meno gravi del sistema nervoso periferico. In pratica, un bambino con spina bifida è nelle stesse condizioni di chi diventa paraplegico a seguito di una caduta o di un incidente stradale. In Toscana, da quasi 30 anni le famiglie che condividono questo problema sono riunite nell’Atisb, Associazione toscana idrocefalo spina bifida. Marco Esposito ne è il presidente. «L’impegno nell’associazione – ci dice – all’inizio mi è servito soprattutto per liberarmi da quel senso di inutilità che non riuscivo a togliermi di dosso: che cosa potevo fare per mio figlio? L’associazione mi ha aiutato a superare quella difficoltà. Oggi è uno splendido luogo dove posso condividere e sperimentare cose nuove con i ragazzi e le loro famiglie».

L’Atisb (sede a Settignano, Firenze, presso la parrocchia, indirizzo internet www.atisb.it) si occupa di sostenere a livello psicologico le famiglie, offre ai ragazzi un supporto medico specializzato, promuove campagne di sensibilizzazione sul tema, ma soprattutto è presente nella vita dei ragazzi mettendo in pista iniziative sempre nuove e stimolanti. «Siamo consapevoli che per fare un passo avanti bisogna, almeno per un secondo, perdere l’equilibrio. E allora noi cerchiamo di tenere i ragazzi molto instabili perché di passi avanti ne possano pare parecchi. Un esempio? A febbraio li abbiamo portati a sciare. Impossibile? No, non è impossibile, si può farlo, con le attrezzature giuste, con gli istruttori. E come questa si possono fare molte altre esperienze: viaggi, incontri, attività sportive. Ma oltreché sul tempo libero lavoriamo molto anche sulla formazione: vogliamo un domani di persone inserite nella società».

Marco ama molto una frase dello scrittore francese Rabelais: «Il bambino non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere». «È proprio così – commenta –. Noi non dobbiamo fare i pompieri con le vite dei nostri figli, dobbiamo dare il fuoco alle polveri. Ci stringerà il cuore se li vediamo per un istante in difficoltà, ma è così che possono esprimersi, liberare tutto ciò che hanno dentro. Il loro fuoco».