PIER FRANCESCO LISTRI

di Antonio Lovascio

«Sono convinto, da credente, che il “Dio nascosto” – sebbene tale – governi la Storia; ma chiami nel contempo gli uomini, in nome della libertà, ad assumersi il responsabile peso di guidarla al bene comune. Per vincere il terribile disagio creato dalle nuove dimensioni del globalismo, bisogna che la Storia torni a sorriderci, e che gli uomini tornino a sorridere alla Storia». Non ci sono altre strade, altre formule o strumenti per il professor Pier Francesco Listri, raffinato scrittore, da 30 anni voce della Rai come regista ed autore di programmi culturali di successo, dopo essere stato altrettanto a lungo caporedattore della «terza pagina» de «La Nazione». Erano questi gli anni in cui il giornale fondato da Bettino Ricasoli esibiva prestigiose firme della Cultura italiana: Vasco Pratolini, Giuseppe Prezzolini, Mario Luzi, Giovanni Spadolini (prima che approdasse alla direzione del «Corriere della Sera»), Sergio Romano, Maurilio Adriani, Mario Tobino, Giorgio Saviane, Gina Lagorio, Luigi Baldacci, per citarne alcuni. Tra un elzeviro ed un saggio, Listri ha sempre dedicato il suo tempo all’educazione scolastica e all’approfondimento degli studi religiosi, lui che si era tanto appassionato al dibattito post-conciliare conquistandosi la stima e l’amicizia di tanti protagonisti (non solo toscani) di quello straordinario momento. Poi cronista e commentatore acuto della protesta negli atenei del ’68 e delle calde vicende dell’Isolotto. Sempre attento e pronto a cogliere ed interpretare, anche nei decenni successivi fino ai nostri giorni, i mutamenti ed i fermenti del mondo e della Chiesa.

Professor Listri, la società moderna – soprattutto i giovani – ha bisogno di ritrovare la scala dei valori, per non essere sopraffatta dal consumismo. Benedetto XVI non perde occasione per invitarci a fermare l’invadenza dell’eclissi della verità. Un richiamo che ha radici lontane: non è forse il pensiero che il giovane teologo Ratzinger ha elaborato e condiviso, negli anni Cinquanta-Sessanta, con studiosi come Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac?

«Accanto a notevoli voci laiche, quella appassionata e profonda di Benedetto XVI, acquista un valore di fraterna e addolorata denuncia. In epoca moderna abbiamo avuto pochi Papi dotati di tanta profondità e riflessione teologica. Essa si rivolge naturalmente a tutti gli uomini, ma soprattutto ai cattolici, per quel di più di forza spirituale e di solidale incontro con l’altro, che la fede pretende. L’invito pressante del Pontefice – pur col mutare dei tempi e della società e del pianeta – è coerente con quanto il giovane teologo Ratzinger scriveva e proponeva mezzo secolo fa. Certo, i cambiamenti sono stati vorticosi: l’eterno bisogno di conversione che stimola gli uomini di fede, si trova oggi di fronte a problemi giganteschi. Quasi due terzi del pianeta che muore di fame e di sete; il pianeta minacciato per l’inquinamento dell’ambiente; le guerre numerose e persistenti in varie zone del mondo, anche – ahimè – di natura religiosa. E – restringendoci all’Europa e all’Italia – l’incertezza di un’unità europea che non sia solo economica, le divisioni radicali fra i partiti, la crisi del lavoro e la disoccupazione; la finanza che ha preso il luogo della sana economia e della politica».

Anche la recente «lettera pastorale» dell’Arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori cerca di rispondere ai numerosi interrogativi che si pone l’uomo contemporaneo. Quali sono i punti più stimolanti della riflessione del presidente della Cet?

«Dalla cattedra fiorentina di Sant’Antonino e di quel gran pastore che conoscemmo di persona in anni difficilissimi, Elia Dalla Costa, oggi si leva, in consonanza con lo spirito d’impegno della Chiesa intera, anche la voce di monsignor Betori. La sua recente Lettera Pastorale tocca i punti di fondo di una retta vita individuale e della comunità. Il tema della collegialità, quella del lavoro, quella di una giusta remunerazione; la necessità di essere vicini ai giovani, la solidarietà verso gli stranieri, sono progetti che richiedono una tempestiva messa in opera».

La storia della Chiesa in Toscana è ricca di insegnamenti e di «stelle polari», come attesta la tua imponente produzione pubblicistica. Quali sono gli uomini che hanno lasciato il segno più profondo?

La Chiesa in Toscana – cui va il merito di aver addirittura in qualche modo anticipato e preparato il Concilio Vaticano II – è gremita più che ricca di grandi figure. Da don Bensi a padre Balducci, da don Chiavacci al vescovo Bartoletti, fino a Lorenzo Milani. Senza dire della grande triade: La Pira,cioè la speranza; Dalla Costa, cioè la fede; don Facibeni, cioè la carità. Segna un lungo mattino religioso, il cui meriggio, però, sembra essersi avviato troppo presto al tramonto. Resta il fatto che nessuna città al mondo possa annoverare, come Firenze, tre futuri santi contemporanei, come appunto i protagonisti della triade, i cui processi di beatificazione sono in corso».

Tanti esempi di carità e di santità noti. Ma nella nostra terra non ci sono state altre figure, umili e semplici, dimenticate o sottovalutate, di sacerdoti e laici che meriterebbero di essere raccontate?

«Sì, sono convinto che la santità non sta sempre e solo coronata sugli altari. Io stesso ho incontrato in tutta la Toscana parroci, monaci e laici comuni, che hanno agito, con silenziosa e cristiana modestia, per alleviare le materiali pene dei poveri e anche i generosi dubbi delle minoranze illuminate. Del resto basterebbe rifare una storia delle parrocchie toscane durante l’ultimo conflitto mondiale (persecuzioni tedesche, ebrei da salvare, popolazioni in fuga) per dire che davvero nella tempesta è la nave della fede (e vivissima è anche oggi la centralità della parrocchia) ad opporsi alla violenza dei flutti».

Nell’ultimo mezzo secolo si è verificato qualche doloroso «strappo», non sono mancate incomprensioni: le nostre comunità alla fine hanno però sempre ritrovato un profondo spirito di fraternità e di unione…

«Sì, non pochi gli “strappi” all’interno della comunità cristiana toscana. Più che scandalo, questo suscita la persuasione che c’è una chiesa istituzionale, ma c’è anche una chiesa profetica, la cui vicenda spirituale non è solo misurabile dagli scontri mondani. Inutile nascondersi che l’esilio di Don Milani, o quello di Balducci – per citare solo due esempi – come i generosi equivoci della Comunità dell’Isolotto, se segnarono una provvisoria divisione, indicarono anche una grande febbre di passione spirituale. Perciò col tempo – i tempi della Chiesa si sa, sono lunghi – la dialettica si compone, le vere conquiste vengono riconosciute, e la fraternità torna a vivere nella carità».

Dal Medioevo al Rinascimento, poi il Risorgimento, tutto il Novecento fino ai nostri giorni. Hai passato al setaccio e narrato tutta la storia toscana. Vi sono analogie tra queste diverse «stagioni»? Qualche specificità da segnalare?

«Medioevo e Rinascimento sono la grande stagione dell’uomo teologico dantesco e dell’uomo del Rinascimento umanistico e profano: due pilastri con cui fare ancora i conti. Il Risorgimento vide in Toscana protagonisti alcuni cattolici insigni: da Ricasoli a Tommaseo, da Capponi a Lambruschini. Il Novecento è gremito di così sconvolgenti eventi nei quali la fede, accanto alle laiche utopie del socialismo e del comunismo, è stata presente e decisiva, fino a quel rientro dei cattolici – che ne erano usciti con Porta Pia – nell’agone della politica italiana Il frutto più alto di questa storia laica è certo la Costituzione, sopratutto con i suoi principi che fondarono – in splendida unità d’intenti – il laicismo di Calamandrei e la fede di La Pira che ne furono gli autori principali.

La cultura toscana dell’ultima parte del Novecento vista dal critico letterario: il tuo scrittore preferito? E quello meno valorizzato o più osteggiato dai circuiti editoriali?

«Il secondo Novecento ha visto una fioritura di nostri scrittori. Il grande Palazzeschi; il lirico Pratolini, l’alto poeta Mario Luzi; il cristiano Carlo Betocchi, l’insonne divulgatore che fu Bargellini, l’ondivago Soffici, per non dire di Piero Jahier, per citarne solo alcuni. E accanto voci insieme di amore al popolo, diversamente intonate, come i santi e gli straccioni di Annigoni o quell’ultima fetta della Firenze popolare splendidamente rappresentata da Ottone Rosai».

Tra gli emergenti c’è… stoffa?

«Forse la letteratura è finita, si è dispersa in troppo rivoli, di cui si sono impossessati l’editoria di massa, i mass media e perfino la pubblicità. Se devo fare un nome fra gli scrittori toscani farò soltanto quello di Antonio Tabucchi».

Giornalista, saggista, storico, critico d’arte, curatore di trasmissioni radiofoniche e televisive. Qual è il mezzo di comunicazione che esalta maggiormente la creatività? Quello che ti ha dato più soddisfazioni?

«Ti confesso che, pur avendo scritto più di trenta libri, la radio – nella quale la parola torna sovrana, giacchè la si può ascoltare a occhi chiusi – mi sembra il mezzo meno corrotto e più disponibile a farci cogliere la splendida molteplicità del reale quotidiano, ma anche a sondare le oggi poco percorse strade dello spirito».

Hai curato riviste e pubblicazioni per l’infanzia e per la scuola. Credo non sia facile il compito di educare, anche per uno scrittore…

«Il sogno sarebbe che a scuola s’insegnasse quel metodo critico che ci salvi dal variopinto bailamme delle effimere banalità mediatiche. Ma un bambino arriva sui banchi della prima elementare,con già alcune migliaia di ore televisive viste e subite. La sfida è enorme, ma vale la pena».

Dopo il Dizionario dedicato all’Unità d’Italia, hai un altro progetto in ponte?

«Sto pensando proprio a un libro su Vasco Pratolini, che ne rappresenti la totalità della complessa figura di grande scrittore della tradizione toscana. Visto fra l’altro che sembra dimenticato».

La schedaClasse 1932, livornese di nascita (non si direbbe dal suo eloquio forbito!), ma da più di mezzo secolo vive a Firenze. Negli ultimi anni si gode l’Arno, la Torre d’Arnolfo ed il Cupolone, dall’alto della casa di Fiesole. Grande giornalista della generazione di Oriana Fallaci (è tuttora editorialista de «La Nazione» e da giovane ha pure collaborato a «l’Espresso» e alla rivista «Il Ponte» di Piero Calamandrei) si è ben presto affermato come storico con più di venti opere dedicate a Firenze, alla Toscana ed ai Lorena. Un filone fortunatissimo, coronato con  l’originale e piacevole «Grande Dizionario dell’Unità d’Italia» appena edito da Bonechi (480 pagine, 23,50 euro).

Allo stesso tempo Listri ha lasciato la sua impronta nei programmi culturali radiofonici Rai con memorabili cicli di trasmissioni dedicate a Pasolini e Calvino, alla vita di Papa Giovanni XXIII, a Pinocchio, ad «Alice nel  Paese delle meraviglie». In occasione del centenario della nascita di Giorgio La Pira ha raccolto in un volume le sue personali testimonianze e quelle di politici e studiosi  che hanno avuto modo di conoscere ed apprezzare la poliedrica personalità del Sindaco-Professore. Molti riconoscimenti alla carriera: da due premi Rustichello, al premio giornalistico Campiello, a «miglior giornalista radiofonico dell’anno», Premio Guidarello conferito da Sergio Zavoli. Forte la sua passione per il cinema ed il teatro, alimentata e cementata dall’amicizia con personaggi come Mario Monicelli, Franco Zeffirelli, Giorgio Albertazzi, Paolo Poli.

In anni lontani ha pure recitato in teatro con Maria Angela Melato e Salvo Randone. Non solo la grande cultura, ma anche tanto costume troviamo  nella produzione di Pierfrancesco Listri. Proprio in questi giorni, grazie all’editore Mauro Pagliai, ha reso omaggio a Pellegrino Artusi a 120 anni dall’uscita del suo capolavoro, con «Alfabeto del pane (e companatico) – Un inedito viaggio in Toscana ieri e oggi fra piatti, curiosità, scoperte e aneddoti».