MARCO MALVALDI. scrittore quasi per caso

di Graziella Teta

Era l’estate del 2000. Marco Malvaldi stava preparando la sua tesi di laurea in Chimica, dal titolo «Transizioni multifotoniche guidate dal laser». Aveva impostato il programma per un complesso codice di calcolo. E mentre il computer elaborava i dati, lui si annoiava. Molto. Così ha cominciato a scrivere una storia. Mentre scriveva, rideva da solo.

Estate 2011. Marco Malvaldi, chimico teorico per passione, scrittore di professione: negli ultimi quattro anni ha pubblicato quattro libri con Sellerio, scalato le classifiche di vendita (oltre 400 mila copie finora), finalista al Bancarella due anni fa, vincitore del Premio Elba quest’anno. È stato un vero exploit, nell’affollato agone letterario, il suo debutto del 2007: a luglio esce il suo primo giallo in salsa toscana, «La briscola in cinque», 7.000 copie vendute a razzo, nello stesso mese esce la seconda edizione. Dopo il primo botto, Malvaldi inanella conferme con «Il gioco delle tre carte» (2008) – che balza a 120 mila copie – e «Il re dei giochi» (2010), terzo best seller. I tre romanzi sono una «serie», con protagonisti gli arguti vecchietti nullafacenti del BarLume – Aldo, Ampelio, Pilade e il Rimediotti (chiamato solo per cognome) – che giocano a carte e aiutano il «barrista» Massimo, investigatore suo malgrado, a risolvere i crimini che agitano Pineta, immaginaria località turistica costiera, tra Pisa e Livorno, dove nonni e pensionati sono irrimediabilmente fuori moda. I lettori, in continuo aumento, si affezionano all’«asilo senile», all’atmosfera di provincia sonnacchiosa, alle discussioni esilaranti dei personaggi. Malvaldi ricambia l’affezione, con una mossa a sorpresa.

Lasciata temporaneamente in Pineta la cricca del BarLume, si cimenta in una nuova impresa: «Odore di chiuso» (uscito in primavera), un giallo di impianto classico, ambientato nella Maremma del 1895, vicino alla Bolgheri di Giosuè Carducci. Il castello del barone Bonaiuti è teatro di un omicidio. Qui l’autore rovescia lo schema della tradizione giallista, pure confermata dalle recenti cronache giudiziarie sul delitto dell’Olgiata (mistero risolto: la contessa Alberico Filo della Torre è stata uccisa dal domestico filippino). Nell’opera di Malvaldi, invece, il maggiordomo non è il colpevole, bensì la vittima. S’infittiscono indagini e interrogatori, mescolati a manicaretti gustosi e agli endecasillabi insolenti attribuiti a Carducci. Si sorride ad ogni pagina, talvolta si ride di gusto. Malvaldi ha colpito ancora.

La formula del suo successo? Curiosità sconfinata, mescolata a quello «spirito toscano» che dubita di tutto e tutti, con gioiosa irriverenza. Le sue storie gialle sono come carta moschicida: si rimane attaccati. E non ci si dibatte per liberarsi, ma per rimanere appiccicati al terapeutico intruglio di buonumore, scrittura curata, intrecci appassionanti. Un mix micidiale, che afferra il lettore e non lo molla più. Esistono testimonianze scritte e prove inoppugnabili, come questa: in una e-mail inviata all’autore, un uomo gli confida di aver rimandato di una settimana un importante intervento chirurgico. Per sistemare affetti ed averi in caso di prematura dipartita? Macchè: temendo di rimanere sotto i ferri e dunque di rischiare di «non avere più tempo», prima di affidarsi al chirurgo il «paziente-lettore» (o meglio, «l’impaziente-lettore») voleva leggere l’ultimo libro di Malvaldi, «Odore di chiuso», appunto. L’ha fatto e poi è andato in ospedale, sicuramente con spirito più leggero – grazie allo spassoso e forbito giallo maremmano appena gustato – di quanto la circostanza consentisse.

Ed ora raccontiamo la storia di Marco Malvaldi, pisano, 37 anni. Un cenno all’ambientazione: cronista e autore conversano in un bar sul lungarno cittadino. Lui è un ragazzone atletico, in bermuda, scarpe da ginnastica e maglietta nera con la scritta: «Il miglior maestro è la pratica», citazione di quel Pellegrino Artusi, critico letterario e scrittore, autore del colto manuale sulla tradizione gastronomica italiana – «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» (1891) – che Malvaldi fa agire da co-protagonista nel giallo sopra citato.

Marco, che fine aveva fatto la storia scritta nell’estate del 2000? «L’ho terminata in due anni. Il primo manoscritto l’ho fatto leggere ad una mia amica che lavora in una casa editrice. “Fa ridere”, mi disse, consigliandomi di mandarlo agli editori di narrativa. Ho inviato 15 copie: mi ha risposto solo un editore, Sellerio, che ha pubblicato tutti i miei libri». Quella storia estiva – diventata poi “La briscola in cinque” – ha successo, entra nella classifica dei libri più letti del Corriere della Sera. Commenta Malvaldi: «Ancora non ci credo: è andata come sarebbe andata nei miei sogni migliori. Anzi, la realtà li ha superati. Anche se i miei libri non compariranno nelle antologie della letteratura italiana, a me piace sapere che leggendoli le persone sorridono». Forse non diventeranno dei «classici» da studiare a scuola, ma certo le opere di Malvaldi sono un caso editoriale in espansione. Dice: «Di recente la Giunti ha realizzato un sondaggio sui migliori libri dei primi 150 anni dell’Italia unita. Il quotidiano “Il Tirreno” ha chiesto commenti a due scrittori, a Sandro Veronesi e a me. Veronesi ha detto che non ce ne sono di memorabili, io ho risposto “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, poi ho scoperto che nella lista del sondaggio compariva anche il mio primo giallo».

Da dove trae ispirazione? «Leggo molto e sono molto curioso. I personaggi della trilogia del BarLume sono inventati, per la figura del barista mi sono ispirato ad uno vero, Massimo, del bar Il Punto di Tirrenia. È a lui che consegno la prima copia di ogni mio nuovo libro. “Odore di chiuso” non mi sarebbe mai venuto in mente se da studentello universitario non avessi letto l’esilarante risorgimento de “Il libro Cuore (Forse)” di Federico Maria Sardelli e il dotto ma pur sempre scompisciante “Novissimo Borzacchini Universale” di Ettore Borzacchini; e aggiungo il manuale di Artusi e la sua biografia». Perché la scelta del genere giallo? «È il genere più facile – risponde candidamente – il canovaccio è già scritto: ammazzi qualcuno, qualcun altro indaga, poi si scopre chi è il colpevole». Autori preferiti? «Rex Stout, Andrea Camilleri». L’essere toscano aiuta? «Sì, è una fortuna, il dubbio prima di tutto. D’altronde, per dirla con Karl Popper, trovare esempi che falsificano una teoria è certo più stimolante che cercarne conferme. Il meccanismo di contrapporre aulico e volgare, inserendo per esempio una parlata becera in un contesto perbene e viceversa, produce un effetto “stordimento” nel lettore e strappa sorrisi». È faticoso scrivere? «È un impegno: curo le fonti, le citazioni. Non racconto balle al lettore. Per me è come andare in surf: stare in equilibrio sulle onde che mi portano, ma ci vuole preparazione e attenzione per non cadere. Il talento? Deriva da quello che hai saputo costruire, dalla capacità di allenarsi bene e di capire dove si sbaglia. In fondo, si scrive per trasformare la realtà e renderla più tollerabile, come dice Orhan Pamuk, uno dei più importanti scrittori turchi, premio Nobel per la letteratura».Infine, svela che sta scrivendo il quarto giallo della serie del BarLume, e che gli piacerebbe cimentarsi nel genere fantascienza. Gli alieni sono avvisati.

Fine della conversazione: sapete che effetto fanno le interviste a Marco Malvaldi? Lo annoiano.

Esercizi di scrittura per un ricercatore precarioVita di Marco Malvaldi, prima di diventare uno scrittore affermato. Com’era Marco da bambino? «Ho cominciato a leggere a quattro anni, per emulare mio fratello maggiore Paolo. Alle elementari credevo che gli altri bambini, che ancora sillabavano, fossero idioti». E da studente? «Fino al liceo pensavo che la scuola non servisse a niente, all’università ho cominciato a studiare davvero. Ho scelto chimica, per curiosità, per mettermi alla prova, perché è una scoperta continua. Un modo per capire il mondo con un minor numero di elementi: altre discipline richiedono valanghe di nozioni e parole, mentre con un pugno di schemi sulle molecole chimiche si spiegano molte cose».

Dopo la laurea, il dottorato di ricerca all’Università di Pisa e un’esperienza di alcuni mesi di Olanda. A 26 anni sposa la collega Samantha. C’entra la chimica? «Sì, nel senso che i chimici vivono in facoltà, al mattino in aula, il pomeriggio in laboratorio, e si riconoscono dalla somma degli odori che emanano». Ma nell’ambiente accademico lui era noto per qualcos’altro. Racconta: «Fui eletto rappresentante dei laureati, mi toccò sorbirmi tutte le riunioni del consiglio dei dottorandi, di cui dovevo scrivere relazioni. Una noia! Così mi divertivo a scrivere relazioni serie riguardo al contenuto, ma negli stili di redazione più svariati: una volta in forma di verbale di polizia, un’altra in stile medievale, e così via». La «fama» delle sue spassose relazioni superò presto la ristretta cerchia dei destinatari (appena otto dottorandi): i lettori erano diventati duecento, professori «sbeffeggiati» compresi.

Come è cambiata la sua vita in questi anni? «Ho lasciato l’appartamento di 50 metri quadri nel centro di Pisa, vivo sulle colline di Vecchiano dove si vede il mare. Ho un figlio di due anni, Leonardo. Cerco di star sereno e di far star bene gli altri. Continuo a studiare chimica, amo la materia, ma sono disilluso dal mondo universitario. Ho detto no ad una vita di ricercatore precario». Qual è stato il vero momento di svolta? «Quando l’editore mi annunciò di essere il secondo finalista al Bancarella 2009, con il secondo libro “Il gioco delle tre carte”, uscito l’anno prima. Un lavoro peraltro difficile, coinciso con un periodo di crisi personale; la trama non mi riusciva bene e l’editore mi ha chiesto un impegno supplementare».

Note biografiche aggiuntive: Marco Malvaldi pratica sport (corsa e nuoto), viaggia (più in treno, meno in auto), apprezza la buona cucina e i buoni vini.