GIORGIO FALETTI: un poliedrico elbano d’adozione
di Antonio Lovascio
CAPOLIVERI (Elba) – Ormai è diventato un fenomeno letterario. Giorgio Faletti come Susanna Tamaro. I suoi bestseller vendono milioni di copie. Li scrive all’Elba, guardando il mare e i gabbiani che si involano tracciando strane traiettorie nel cielo e lanciandosi verso l’isola di Montecristo. Dalla sua casa in pietra, che si staglia tra il verde, all’ombra della vecchia Capoliveri, sono in pratica usciti quasi tutti i romanzi che lo hanno consacrato «campione di noir». Romanziere di successo, dopo essere stato attore, comico, musicista, paroliere di Mina e cantante al Festival di Sanremo. Ora (61 anni appena compiuti il 25 novembre), l’alba ed i tramonti elbani lo hanno fatto scoprire anche pittore. Non nasconde la passione per l’arte figurativa: dipinge e visita mostre. Nell’ultima estate, proprio in questa «isola a forma di pesce che ha spiagge belle e tutte diverse tra loro» purtroppo in parte flagellata dalla recente alluvione Faletti ha trovato l’ispirazione per fare una sorpresa ai suoi lettori. Ha messo da parte serial killer e poliziotti per raccontare una storia «piccola e bella» ma tutta italiana, ambientata nella natia Asti, dove ancora passa qualche mese all’anno. Una storia di uomini che ha sullo sfondo il mondo del calcio il più popolare degli sport cercando però di parlarne il meno possibile. Anche se, leggendo la prefazione del libro, registriamo che Faletti ha avuto un «consulente» d’eccezione, Alessandro Del Piero. «Mi ha spiegato cosa succede nello spogliatoio prima di una partita, i rituali che ciascuno ha, cosa fanno i giocatori». Ma allora diamo la parola all’autore, che ci svela i suoi segreti.
Giorgio Faletti, con il suo settimo romanzo «Tre atti e due tempi» ha abbandonato il genere «noir» che le ha portato tanta fortuna. Come mai questa scelta?
«Ogni tanto è necessario rimettersi in gioco, abbandonare strade già battute per investigare nuove situazioni. Fa parte del mestiere dello scrittore in generale e del mio carattere in particolare. In questo caso la sfida era scrivere un romanzo che non fosse un thriller, ma che di questo genere letterario conservasse la tensione. Il protagonista del libro è Silvano Masoero, detto Silver, un ex pugile destinato alla gloria che, dopo aver sposato una brava ragazza Elena si ritrova a fare il magazziniere di una squadra di calcio. Ha un figlio calciatore, che gira per l’Italia in cerca di successo».
Perché stavolta come ambiente ha scelto il mondo del pallone ? Sono forse i ricordi dell’infanzia ad Asti?
«Da tempo avevo in mente di scrivere una storia in un ambito sportivo. Il calcio mi è sembrato quello più indicato in quanto il più diffuso. Tuttavia l’obiettivo non era quello di scrivere un romanzo sul calcio, ma una storia che l’avesse come quinta e che dietro ad essa si svolgesse. L’ambientazione provinciale sicuramente affonda le radici nei miei ricordi astigiani, ma non solo. Ci sono pezzi di diverse città piemontesi in quella dove l’azione si svolge».
Dalle 400-500 pagine dei «thrilling» ambientati in America, nei Caraibi e a Montecarlo è passato ad un’opera più snella. Piccolo è bello anche tra i bestellers?
«Ogni storia ha il suo svolgimento e solo quando si avverte che è conclusa bisogna contare le pagine. La lunghezza è ininfluente. In questo caso tuttavia ho voluto misurarmi con un romanzo breve, seguendo un suggerimento dell’editore. È stata una bella esperienza per me e spero anche per i lettori».
Si dice che in Italia si legge poco. Come si spiegano allora i milioni di copie vendute con «Io uccido», «Niente di vero tranne gli occhi», «Fuori da un evidente destino», «Io sono Dio» e «Appunti di un venditore di donne»? È vero che li stanno ristampando?
«In realtà non me lo spiego. Nei momenti di ottimismo mi trovo a pensare che forse è perché sono dei buoni libri e io sono un bravo autore. In altri momenti penso solo di essere una persona che ha la fortuna di raccontare storie che interessano alla gente. Per quanto riguarda le ristampe ho anche la fortuna di avere scritto romanzi che oltre ad essere dei bestseller sono anche dei long seller».
Prima di diventare scrittore è stato un personaggio dello spettacolo. Ha nostalgia per quel mondo e per la tv? I suoi comici preferiti tra quelli emergenti?
«Più che nostalgia per quel mondo ho nostalgia dell’età in cui frequentavo quel mondo. Ma c’è una stagione per ogni cosa e dunque la mia prevede adesso che io stia davanti a un pc a inventare e scrivere storie. Decisamente il mio comico preferito fra quelli emergenti è Checco Zalone, perché ha il coraggio di sembrare stupido».
L’ironia brilla sempre nei suoi romanzi. Mai tentato di fustigare con il suo sarcasmo la politica mediocre dei nostri tempi? Da avvocato mancato, come affronterebbe ad esempio la riforma della Giustizia?
«La satira politica non mi ha mai interessato molto perché credo mi manchi quel pizzico di faziosità necessaria per farla in modo efficace. La riforma della Giustizia potrebbe iniziare in modo adeguato facendo rispettare le leggi che già ci sono, prima di introdurne delle altre».
Tanti film, tanti ruoli. Il professor Molinari de «La notte prima degli esami» come vede la scuola d’oggi? I nostri giovani hanno un futuro?
«La scuola di oggi a mio parere è un poco implosa a causa di una cronica mancanza di mezzi e di piccoli ideali, che messi insieme ne costruiscono uno grande. I nostri giovani avranno il futuro che la mia generazione ha la responsabilità di offrire e che loro avranno la voglia di costruire».
Da qualche anno con Roberta, architetto, vive all’Elba. Anche con l’isola è stato amore a prima vista? In che misura ispira i suoi romanzi?
«Si può dire che sia stata l’Elba a scegliere me piuttosto che io a scegliere l’Elba. Non traggo dallo scoglio particolari ispirazioni, ma certo è il posto giusto per stendere i miei romanzi, il che rappresenta una collaborazione non da poco».
Sui toscani la pensa come Curzio Malaparte? Quando gioca a carte nei bar di Capoliveri o Porto Azzurro le appaiono così «maledetti»?
«Affatto. Gente saporita, sanguigna, sempre pronta a una battuta piena di quell’umorismo ormai indissolubilmente legato alla loro cadenza. Amicizie non facilissime da conquistare, ma una volta entrati l’uscio di casa è sempre aperto».
La critica che l’ha ferita di più? È permaloso?
«Tutte le critiche in qualche modo feriscono, inutile negarlo. Ce ne sono a volte di faziose, in cui si capisce che l’appunto negativo è rivolto più alla persona che all’opera. A volte risolvo la cosa pensando che molti di quelli che mi criticano vorrebbero essere al posto mio. Tuttavia è fisiologico che non si possa piacere a tutti. Non c’è riuscito nemmeno Gesù, figuriamoci io…
Ha un sogno nel cassetto? Forse è il titolo di un nuovo libro?
«Il sogno nel cassetto è quello di continuare ad aprirlo e trovarlo pieno di idee. L’importante è costruire le storie, poi i titoli vengono da sé».
Per far felice papà Carlo si è laureato in Giurisprudenza. Ma dalle aule dei tribunali il giovane Faletti si è ben presto catapultato a recitare «Giulietta e Romeo» nei piccoli teatri delle province piemontesi e poi sui palcoscenici del cabaret. Negli anni Settanta ottiene i primi successi nel locale milanese «Derby», applaudito dal pubblico insieme ad altri comici che poi, come lui, hanno fatto strada: Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Massimo Boldi, Paolo Rossi e Francesco Salvi. Nel 1985 la definitiva consacrazione televisiva con «Drive In», il programma-cult di Antonio Ricci nel quale interpreta la guardia giurata pugliese Vito Catozzo e altri personaggi divertenti. Nel 1990 partecipa a Fantastico al fianco di Pippo Baudo, Marisa Laurito e Jovanotti.
Artista «mutante», nei dieci anni successivi si dedica alla musica. Scrive canzoni per sé, per Mina, Gigliola Cinguetti, Fiordaliso.
Nel 1992 va a Sanremo: in coppia con Orietta Berti canta «Rumba di Tango». Due anni dopo arriva secondo con «Signor tenente», ispirata alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. «Doveva essere una canzone un po’ umoristica, ma poi cambiai tono, parole e divenne un successo», ricorda.
Quindi agli inizi del Terzo Millennio la scelta che gli ha cambiato la vita; una vera e propria ascommessa vinta. Un giornalista amico (Piero Degli Antoni, inviato Cultura & Spettacoli del QN / La Nazione – Il Resto del Carlino – Il Giorno) gli presenta un editore di punta, Alessandro Dalai. Faletti, con una buona dose di coraggio, si propone provocatoriamente come scrittore: «Avrei dei racconti nel cassetto molto belli da farle leggere». Ok, dice Dalai: «Me li mandi». Dalai, che ha fiuto, li legge e lo richiama: «Senta, Faletti, ma lo sa che scrive davvero bene. Però, sì, i racconti sono molti belli, ma non vendono. Ecco, se mi scrive un romanzo con la stessa cifra letteraria glielo pubblico».
Faletti non si scoraggia: si mette al computer e sforna il suo primo romanzo, «Io uccido»: settecento pagine! È il 2002. Con lo stesso editore (Castaldi & Baldini) pubblica altri cinque thriller vendendo milioni di copie andate a ruba nelle librerie, alle fiere e negli autogrill. Da qui l’appellativo di Dawn Brown italiano. Finché nella primavera scorsa un altro editore (Einaudi) lo convince a cambiare genere, forse nell’intendo di costruire il bestseller del prossimo Natale. Nella sua casa di Capoliveri Giorgio Faletti passa così l’ultima estate a scrivere «Tre atti e due tempi», lungo soltanto 160 pagine. Convinto che anche questa volta l’Elba gli porterà fortuna. Quello con l’isola è stato proprio un amore a prima vista, appena sbarcato a Portoferraio: un’attrazione fatale!