ANDREAS MANDLER: Il tedesco di Firenze che studia i tagiki
di Francesco Giannoni
Andreas Mandler è un giovane signore tedesco che vive a Firenze con la moglie Francesca (ricercatrice al Lens di Sesto Fiorentino) e con i figli, Martino e Clelia. Ma per il suo lavoro si divide fra Bonn e le montagne del Tagikistan, Stato dell’Asia centrale, fino alla «caduta del muro» parte dell’Unione Sovietica.
Presso l’Istituto per lo studio dello sviluppo dell’università dell’ex capitale tedesca, compie quello che in Italia è il dottorato di ricerca. L’85% dei suoi colleghi viene da paesi extraeuropei. Ognuno ha il suo progetto di ricerca sullo sviluppo (politico, economico o delle risorse naturali) del paese di origine; vi si reca per alcuni mesi l’anno a compiere studi e indagini, poi torna a Bonn e scrive la sua relazione. Il restante 15% è tedesco e lavora su vari Paesi; Mandler sul Tagikistan.
La scelta non è stata casuale. È nato nella Ddr, nelle cui scuole si studiavano i paesi socialisti. Poiché le Alpi erano il «nemico di classe», lo Stato guardava a est, verso Caucaso, Tien Shan e Pamir. Per l’appunto, da ragazzo Andreas era attratto dalle montagne: più alte erano, più lo seducevano. Leggendo libri alpinistico-culturali sull’Asia Centrale, aveva scoperto che le vette più elevate di quella regione erano proprio nel Tagikistan. Alcuni alpinisti gli avevano narrato il fascino di quei luoghi, stregandolo ancora di più.
Con il passare degli anni, e nonostante la fine della cortina di ferro, l’attrazione di Andreas non si è affievolita: ha studiato Scienze dell’Asia centrale alla Humboldt Universität di Berlino, focalizzandosi sulle complesse difficoltà che affrontano i Paesi ex-sovietici dopo l’indipendenza.
Già durante gli studi, si recò sei mesi in Tagikistan a compiervi le prime ricerche, conoscere il paese e la gente, impararne la lingua. «Conosco il tagiko e sono autonomo nella vita quotidiana; ma per le indagini e per le interviste specifiche con i contadini, ho bisogno di un interprete». Si aiuta con il russo (per decenni, lingua ufficiale di quel paese) appreso a scuola, quando nella Ddr era obbligatorio studiare l’idioma del paese «fratello».
Lui e un collega tagiko, Hafiz Boboyorov, che ha svolto il suo dottorato a Bonn e lavora a Dushanbe presso l’Accademia di scienze del Tagikistan, hanno redatto un progetto (per tre anni finanziato dalla Fondazione Volkswagen), volto a studiare come le comunità locali organizzano lo sviluppo agricolo in un’economia privatizzata, non più collettivizzata.
Per questa ricerca, dice, «è importante che io trascorra lunghi mesi (quest’anno 5) nel paese, parlando con i contadini, vivendo con loro, in famiglia, capendone la vita, i problemi e soprattutto l’influenza della politica sul lavoro». Si creano rapporti anche molto intensi. A volte non è chiaro chi intervista chi.
I risultati delle indagini sono scoraggianti. Nonostante «le leggi siano giuste e ben fatte, non sono applicate». Nei villaggi dove Mandler vive, i contadini gli espongono i loro problemi, come i loro diritti sono spesso calpestati. Dalla polizia è inutile andare: o non c’è, o latita; la giustizia non li protegge.
La politica non li aiuta, non dà incentivi, non formula piani di sviluppo. Capita spesso che il politico locale sia corrotto e prepotente: quando vede che un contadino è riuscito a migliorarsi economicamente, se ne approfitta, e l’altro torna povero.
Vent’anni dopo la fine dell’agricoltura collettiva di tipo sovietico, la produzione agricola è tornata ai livelli dell’epoca socialista; questo ufficialmente; in realtà, i contadini sono poveri (circa il 50% vive sotto il «National poverty line»), anche se le risorse naturali ci sono.
Nonostante la maggioranza dei tagiki lavori nel settore primario, spesso l’agricoltura è di sola sussistenza, ed è impossibile guadagnare per reinvestire in migliorie tecnologiche. È difficile trovare chi faccia solo il contadino: quasi tutti fanno anche altri lavori.
Spesso sono anche pastori, soprattutto sulle montagne, dove è ancora più arduo sopravvivere di sola agricoltura. «Il bestiame è una sorta di banca per il contadino. Quando ha i soldi, compra un animale, quando mancano, lo rivende». Per un contadino è un passo verso il benessere possedere capi di bestiame. Le mucche sono quelle che hanno più valore, ma sono poche.
Ecco la giornata tipo del contadino: sveglia alle 4 per arrivare puntuale in moschea all’alba (il 98% della popolazione è musulmana); alle 5 al campo fino alle 11; alle 12 nuovamente in moschea; dopo pranzo, una lunga pausa, perché d’estate è molto caldo nelle ore centrali della giornata. Verso le 16 a lavorare fino al tramonto; quindi ancora in moschea. Dopo la cena, chi vuole, va un’ultima volta in moschea. Sin nei villaggi più piccoli, ogni quartiere ha la sua.
Quando è là, Andreas si immerge nelle intense relazioni sociali del villaggio: ci si incontra nei campi, oppure nelle case (anche la moschea svolge funzioni sociali). Dato che le risorse sono scarse, i contadini si organizzano: si scambiano i pochi trattori o i sempre presenti asini (la «jeep tagika»), fanno i turni per andare a prendere l’acqua, riparano gli attrezzi a seconda delle competenze. Sono rapporti basati su dare e prendere; un contadino può fruire dei beni del vicino, ma poi toccherà a lui.
Da questa fitta rete di relazioni, è impossibile uscire, altrimenti si vive duramente, o non si sopravvive. Tali reti sociali hanno carattere di protezione, ma anche di controllo: dunque influenzano l’attività agricola e la vita delle persone.
Viaggio in Tagikistan
Per un europeo il Tagikistan non è dietro l’angolo. E gli spostamenti all’interno del paese sono complicati: il 93% del territorio è montuoso, più della metà oltre i 3000 metri; inoltre le infrastrutture sono scarse: c’è solo una strada asfaltata che collega nord e sud del Paese; dovendosi spostare fra est e ovest, è difficile; i mezzi pubblici, quando ci sono, «funzionano in modo abbastanza incomprensibile».
Però «vale la pena andarci: la natura è bellissima e la cultura locale interessante. Inoltre, nonostante sia povero, il popolo è gentile, simpatico, accogliente. Appena ti conoscono, ti invitano in casa a bere il tè. Povertà non significa depressione. L’ospite è importante, porta sempre interessanti novità».
E l’interesse non è per niente superficiale, anzi: le domande su figli, genitori e nonni non finiscono mai. Ogni volta, la scoperta che Andreas è tedesco, abita a Firenze e ha una moglie italiana, suscita stupore e curiosità.
Anche se negli ultimi vent’anni si sono impoveriti, i tagiki sono aperti e tolleranti, colti: conoscono bene l’Europa; la generazione più anziana ha visitato i paesi baltici, la Ddr o le coste del Mar Nero. «La prossima volta che andrò in Tagikistan promette Andreas porterò dei libri su Firenze in russo; li ho già comprati».
Pillole dalla Ddr
Andreas Mandler è nato a Erfurt. Il suo giudizio sulla città è lapidario, «tedesco»: «200.000 abitanti, 6 linee di tramvia. Anche se è la capitale della Turingia, è un po’ provinciale».
Quando Mandler è nato, il Land faceva parte della Repubblica Democratica Tedesca. Alla caduta del muro, Andreas aveva 14 anni. I ricordi della sua vita nello Stato comunista si legano all’infanzia e un’adolescenza appena sbocciata: «Era bello perché era il luogo di me bambino». Ancora non si era scontrato con la realtà. I problemi iniziavano dopo: li ascoltava dagli amici più grandi o dal fratello maggiore che non sapeva se avrebbe potuto conseguire la maturità. Senza risultati brillanti a scuola, gli studi non proseguivano: solo 2-3 ragazzi per classe erano scelti per frequentare l’università. Il suo amico del cuore studiava con profitto; dato però che i genitori erano cristiani, c’era da aspettarsi che le autorità gli avrebbero reso difficile il cammino scolastico.
«Ricordo che un giorno (ero piccolo) scarabocchiavo su una foto di Erich Honecker sul giornale; mia madre, che non era certo politicizzata, mi disse: «È meglio che tu non lo faccia mai più». Erano scherzi che potevano costare cari».
Qualche volta l’atmosfera del Tagikistan ricorda ad Andreas gli anni della Ddr: la limitata libertà dell’individuo, ogni suo sviluppo guardato con sospetto. È come se il tempo si fosse fermato.