EMILIA JITARU: La suora nei panni di «mister» per portare Gesù ai ragazzi
di Giulia Sarti
Una squadra di calcio, come ce ne sono tante in città. Una squadra come tante, ma diversa da tutte. Già dal nome si capisce: «I tre arcangeli», inusuale se si parla di sport, soprattutto di calcio. Strana per l’età dei giocatori e per la tipologia: ragazzi e ragazze tra i 7 e 20 anni. Forse ancor più strana però per il suo allenatore. L’allenatore a dire la verità non è un allenatore, è un’allenatrice. Ha 42 anni, è nata in Romania, è arrivata in Italia 17 anni fa e si chiama Emilia Jitaru.
E di calcio se ne intende: nel suo Paese era un piccolo fenomeno. Emilia ha iniziato a giocare quando aveva 10 anni, è stata in una squadra di serie A ed è addirittura stata selezionata per far parte della nazionale. A 21 anni però ha deciso di smettere: «Ero una ragazza normale, ero brava a giocare, avevo un fidanzato, la mia famiglia stava bene economicamente, ma ». Ma c’era un «ma» che non le riempiva quel vuoto che sentiva dentro. «Sotto il regime del mio Paese era pericoloso professarsi cristiani, ma per me che tendenzialmente ero atea, non era mai stato un grande problema. Ma per la festa del nome di Maria, particolarmente sentita da noi, il 12 settembre del ’92, dopo una partita, andai a messa e iniziai a sentire qualcosa simile alla serenità». Come capita tante volte, in quel «ma» ci era entrato Lui, stavolta tramite una suora della Congregazione Maestre Pie Venerini che Emilia aveva conosciuto nell’occasione.
E così torniamo alla nostra allenatrice che ha 42 anni, è nata in Romania, è arrivata in Italia 17 anni fa e si chiama Emilia Jitaru. Anzi, Suor Emilia, Congregazione Maestre Pie Venerini: quattro lettere in più nel suo nome che fanno la differenza. Che sono riuscite ad unire due mondi che sono diventati così lontani: quello del calcio e quello della fede. «Quando sono arrivata nella casa della mia Congregazione lo scorso agosto, ho notato che nel quartiere non c’erano molte proposte che facessero stare insieme i ragazzi».
Detto fatto, con il permesso del parroco, del Vescovo e dei suoi superiori a Roma, Suor Emilia ha appeso un cartello per invitarli a giocare nella scuola-calcio «I tre arcangeli», il nome dell’Unità Pastorale della quale fa parte. Per informazioni chiamare Suor Emilia.
«Volevo che venissero tutti quelli a cui piace giocare per il solo fatto di stare insieme e divertirsi, o tutti quelli che arrivati a una certa età, se non vengono selezionati da una squadra, smettono di farlo».
Per adesso la sua squadra è formata da una quindicina di ragazzi, anche 3 ragazze, la maggior parte di loro delle parrocchie dell’Unità Pastorale, ma tramite il passaparola è arrivato qualcuno che in chiesa non ci ha mai messo piede.
«Abbiamo iniziato a ottobre e dopo circa un mese mi sono rotta un piede facendo vedere ai ragazzi come si tira. Il giorno in cui mi operavo doveva venire a intervistarmi la Rai. Ho pensato che il Signore mi stesse dicendo di non montarmi troppo la testa. Ma adesso ripartiamo ogni mercoledì e giovedì dalle 15 alle 17 ai campi delle nostre due parrocchie, grazie all’aiuto di Silvia, la mia spalla».
Silvia è la mamma di un piccolo giocatore un po’ timido «Per farlo partecipare dice mi sono messa in gioco insieme a lui, visto che a Suor Emilia servivano due piedi in più».
I genitori tifano, è il caso di dirlo, per questa nuova squadra: la mamma di Filippo lo porta volentieri perché vede che qui gioca e si diverte: «Non volevo mandarlo in una scuola-calcio perché non mi piace quell’ambiente dove gli allenatori vogliono tirare su campioni e non ragazzi. Non volevo che Filippo tornasse a casa triste per una sconfitta, non certo per il risultato, ma perché non aveva neanche partecipato a quella sconfitta».
Quello che invece Suor Emilia voleva fare era usare il calcio come mezzo per insegnare valori che si sono persi in questo sport, educando i bambini anche alla sconfitta. Senza dimenticarsi, nel farlo, dei loro genitori: «In tante famiglie non si parla più, non ci si ascolta e non si sgrida per paura di perdere i figli. Qui si prova a crescere insieme con delle regole, senza spirito competitivo, creando un gruppo che si diverte».
E basta?Certo che no: «Questa per me è la nuova evangelizzazione, che esce dai muri e cerca fuori le pecore smarrite per raggiungere lo scopo che è l’incontro di Gesù nella messa. Il calcio è solo uno dei tanti modi possibili per fare il primo passo, il più difficile, attirare i ragazzi per iniziare insieme un cammino che li porti oltre. Conoscere vuol dire impegnarsi, ecco perché mi piacerebbe metterli in contatto con la realtà sociale della nostra città, un’esperienza che li farebbe davvero crescere insieme».
Il torneo di oggi contro la squadra degli scout del Livorno 9 deve partire, c’è bisogno del coach. Suor Emilia fa dire un’Ave Maria e via, si inizia. Anzi no, manca ancora una raccomandazione: «Il primo che dà un calcio a qualcuno esce, qui vinciamo tutti!».
E ai genitori che portano i figli, Suor Emilia ricorda: «Tornate alle 19: giochiamo a pallone e alle 18 andiamo tutti insieme a messa».
La scuola di calcio dei «Tre Arcangeli» fa tornare alla mente la proposta che il vescovo di Livorno monsignor Giusti fece già qualche tempo fa: realizzare una squadra di calcio per tutti i ragazzi che per i motivi più diversi non possono giocare nelle normali società calcistiche.
«Lo sport è un diritto di tutti disse nell’occasione il vescovo Simone : si dice o no giocare una partita? Allora lasciamoli giocare questi ragazzi! Vorrei far ripartire il Csi e altri progetti di oratori in città. Perché tutti possano giocare, anche chi non ha la stoffa per vincere, ma ha semplicemente voglia di divertirsi. Lo sport è uno strumento educativo primario: si imparano a rispettare le regole, la disciplina, si impara a guidare il proprio corpo, a fare squadra per un unico traguardo, ad allenarsi con sacrificio: per questo è importante che lo sport sia per tutti, perché è una scuola di vita. E soprattutto è un ottimo metodo per stare lontano da tante devianze. È giusto che si aiuti chi è interessato alla competizione e vuol vincere e magari ha anche le capacità di farlo, ma è giusto anche non precludere la possibilità di divertirsi a chi ha solo voglia di scatenarsi dietro un pallone!».