STEFANO PASSEROTTI: Il giardiniere che lavora con i suoni
Nasce nel 2004. L’anno precedente, il Forte Belvedere aveva ospitato «Belvedere dell’Arte/Orizzonti», la mostra-evento organizzata da Achille Bonito Oliva. Fra gli espositori, Timet (gruppo impegnato sin dal 1993 nel campo delle installazioni sonore). Passerotti, che curava il restauro del giardino del Forte, conobbe un membro di Timet.
«Da quel momento lavoro all’applicazione del suono nei giardini. Non è una novità: le piante, colpite dal vento, emettono suoni. Per rendere un giardino ancora più sonoro, con Timet progettiamo e realizziamo arnesi appositi». Ogni anno cambia il materiale con cui sono costruiti: vetro, plexiglas, cotto, ferro, legno ecc. Così nel Giardino vediamo una grande sfera rossa in polistirolo, un camminamento in travi di legno, parallelo a un viottolo di frammenti multicolori di vetro, «lance» in ferro che emettono suono e luce, un cancello con «foglie» e «fiori» policromi, proseguimento della natura sin dentro un edificio, in questo caso una limonaia.
Con il suo giardino, situato in una zona densa di traffico, con suoni naturali Stefano cerca di distrarre dal rumore, ma non solo: «Dobbiamo reimparare a stare nei giardini». All’ingresso dei suoi, Passerotti, pone una porta distesa per terra (che ci farà mai lì, si chiede il visitatore), un lamellare d’acqua (una superficie d’acqua, profonda pochi centimetri, una «lama» appunto), delle piante di cui spostare i rami, inducendo l’ospite a rallentare, per capire che lì entra in un mondo che vuole calma e disponibilità di tempo e dello spirito.
Non ci dedichiamo più alla natura, non abbiamo più un contatto fisico con lei. «Lo vedo, quando i bambini vengono in visita qua: non sono abituati a correre in un giardino, a vivere il verde. Invece, nella formazione di un bambino, e nella vita di un adulto, trovo importante il contatto corporeo con i prati, con gli alberi».
A tal proposito, Passerotti ha realizzato, con erbe aromatiche, delle chaise-longues naturali dalla linea che asseconda il corpo: adagiandovisi, è possibile l’adesione fisica al terreno erboso, respirandone il profumo.
«Guardiamo indietro, capiamo quel che abbiamo perso e riprendiamocelo». Nel suo viaggio a ritroso, Stefano riporta alla luce metodi visti praticare dal nonno e dal babbo: vagliare la terra, spezzettare vasi di terracotta rotti (senza buttarli via) per preparare un drenaggio, conservare in un angolo del giardino aghi di pino e foglie secche da far macerare e miscelare con il terreno, concimandolo.
Sicuramente è più facile andare in un negozio e comprare il kit per l’orto, le argille espanse, i prodotti chimici. Tutto questo giova alle aziende, ma non alle piante, «costrette alla perfezione». Per ottenerla «basta usare quel che viene dalla natura o rifarsi ad antiche abitudini».
Anche perché se noi diamo alle piante, velocemente e in modo innaturale, ciò di cui hanno bisogno, una volta che interrompiamo la somministrazione creiamo loro dei problemi. Non li avranno se abituate naturalmente, senza sovrabbondanza di concimi e d’acqua.
Nessuno vuole più perdere tempo ad annaffiare manualmente; invece sarebbe bellissimo che il padrone di casa, quando invita gli amici per un cocktail o per una cena, narrasse come mai le sue piante sono così belle; ed è solo chinandosi su di loro per annaffiarle, che si vede se stanno bene, se hanno davvero bisogno d’acqua.
Bisogna capire l’importanza delle sarchiature del terreno che fanno penetrare l’acqua della guazza notturna o della scarsa pioggia in un periodo di siccità, senza farla scivolare via. Bisogna capire che acqua piovana e guazza sono sufficienti al mantenimento del prato: «L’annaffiatura è un soccorso quando il caldo estivo dura troppo a lungo»; e se il prato non è verde ma giallo, lo è solo per 15-20 giorni, ma risparmiamo acqua. Oltrettutto basta preparare la giusta miscela di sementi e i prati sono verdi anche d’estate.
Passerotti irriga le sue piante unicamente nei primi due mesi dall’impianto (autunno-primo inverno); a primavera, dopo 4-5 mesi che sono a dimora, basta poca acqua, anche perché Stefano ha compiuto il lavoro per sfruttare al meglio guazza e pioggia.
Stefano collabora con un’azienda svizzera leader mondiale che dai noccioli di alcuni frutti estrae olio, «la parte più importante dell’energia che può dare un frutto». Olio dai semi di zucca, di argan, di nocciòlo, di noce, di prugna. «Assaggiare sull’insalata o sul gelato l’olio di semi di zucca è una rivelazione. Ti arricchisci con simili scoperte. E capisci che della natura si può usare tutto, senza buttare niente».
L’ultimo incarico è la progettazione del verde nel monastero delle Clarisse di San Francesco e Santa Chiara sul monte Cademario nel Canton Ticino: «Lavoro affascinante, anche pensando a chi che ne usufruirà».
Cominciò il nonno Salvatore negli anni ’40 in alcuni giardini sul viale dei Colli e sulle pendici fiesolane. Fu Oliviero, il babbo, ad avvicinare Stefano a questo mondo, senza imposizioni: «D’estate andavamo in qualche giardino; lui lavorava e io giocavo con i figli dei proprietari». Allora il giardiniere, e suo figlio, erano parte della famiglia padrona del parco, perché il giardiniere conosceva tutto di quel luogo, dagli animali che ci vivevano all’orto che i proprietari volevano coltivare personalmente, guidati di Oliviero.
Non si guardava ai costi, come oggi, ma al piacere che un esperto curasse il giardino. Oliviero aveva le chiavi e non doveva dire quando andava, quante ore faceva; era lui a decidere. Poteva arrivare tutti i giorni per un controllo, e poi tornava, più o meno spesso a seconda del periodo, per il lavoro vero e proprio. «C’era una fiducia totale. Era così per tutti i suoi colleghi».
Stefano ha imparato dal padre il rispetto e l’adorazione per la natura: «Mi faceva notare cose interessanti e suggestive: per esempio, mi spiegava il letargo delle tartarughe; poi, insieme, preparavamo il rifugio per il loro sonno».
Solo un padre può insegnare a un figlio in questo modo, abituando l’occhio a quel che accade intorno. Oggi non succede più, ed è un peccato: perdiamo tanto, proprio nella quotidianità.