MARIO GINOCCHI: il pittore che scolpisce strumenti musicali
di Renato Bruschi
I colori possono diventare suoni. Non è una forzatura linguistica, ma un processo comunicativo e conoscitivo che va sotto il nome di «sinestesia» e descrive la possibilità di percepire un fenomeno attraverso più sensi, da quello visivo a quello uditivo, dal tattile all’olfattivo. Ed è proprio la «sinestesia», la chiave di lettura che si attiva di fronte ai quadri di Mario Ginocchi, massese «doc», con una lunga carriera artistica che inizia nel 1952, e si prolunga, rinnovandosi nel corso degli anni, con una sempreverde creatività, fino ad oggi.
Enfant prodige, inizia a disegnare e a dipingere, spinto da un istinto primordiale e puro, fin dalla tenera età, quando frequentava le scuole elementari, vincendo concorsi e ottenendo numerosi premi.
Dopo la formazione scolastica, all’Istituto d’Arte di Massa, si dedica alla pittura, più da autodidatta che da pedissequo studente. Ciò gli permetterà di modificare, senza troppe remore, il suo linguaggio artistico, passando da periodi in cui domina un’autentica rarefazione e deformazione della figura umana, a fasi nelle quali si affacciano alla coscienza interrogativi inquietanti, «perché il dolore?», «cosa è la morte?» che imprimono una svolta al modo di concepire e realizzare il volto, il corpo, lo sguardo dell’uomo, facendone, così, riassaporare la dignità creaturale che lo contraddistingue. Una costante è presente nelle sue opere: l’allergia a certe tinte forti, ai colori sgargianti e accesi, ai rossi carminio e ai gialli intensi, prediligendo le velature più smorzate o lo spettro più algido del verde e dell’azzurro.
Chi entra nella sua casa, che è anche il suo atelier e l’«osservatorio» da cui si guarda il mondo e la società, si trova, all’improvviso, «scrutato» dalle opere che si sporgono dalle pareti della casa, posta nella centralissima via Dante, nel cuore della Massa antica, proprio ad un passo dal Duomo.
Sono volti, occhi, bocche, ma anche paesaggi, finestre spalancate sulla natura, figure allungate che rimbalzano dalla tela o dal legno o dalla carta, schizzati dai colori a olio, o da quelli a cera, dal carboncino, dalla china, a seconda della tecnica che, volta per volta, l’artista utilizza per corrispondere al meglio alla sua innata «verve espressiva».
Attraverso la cornice, a chi sosta dinanzi al contenuto che essa racchiude, come una candida aureola, si svelano scenari inattesi, veri e propri mondi separati, che abitano quel sostrato istintuale da cui trae forza la lingua artistica di Mario Ginocchi.
Ma sbaglierebbe chi pensasse alla sua pittura come ad una sorta di un universo parallelo e virtuale, lontano dalla realtà. Pur rimanendo chiuso nel suo spazio vitale, nella casa di Via Dante, l’artista ascolta il mondo che lo circonda, cogliendo in esso i sussulti e gli aneliti più reconditi che altri, nonostante una dichiarata intenzione realistica e oggettiva, non riescono, di fatto, a portare alla luce.
«Amo la mia terra ci ha dichiarato ; vorrei che restasse come l’ho conosciuta quando ero bambino: un regno di bellezza e di armonia». Da questa passione deriva l’impegno civile di Mario, a difesa del territorio e della sua città, dalla quale si è allontanato soltanto per un breve periodo, negli anni della formazione artistica, frequentando la grandeur parigina. Un amore diretto, senza retoriche, che diventa nostalgia di una bellezza perduta.
E alla terra apuana, e in particolare all’acqua che sgorga dalle viscere delle montagne, Mario ha dedicato, recentemente, una mostra dal titolo inequivocabile, «Il richiamo dell’acqua»: quarantasette dipinti che raccontano la storia del fiume Frigido, dalla sorgente ai piedi del monte Sagro, fino alla foce, nelle spiagge di San Giuseppe Vecchio, rappresentandolo dall’interno, come se l’occhio del pittore fosse posto al di là dell’acqua, nei fondali del torrente, dentro le caverne e tra le fenditure della rocce, ad osservare, con sapiente perizia, il baluginare freddo e misterioso dell’elemento primordiale.
«Dobbiamo rispettare i nostri fiumi racconta e ascoltarli. Ci parlano di un mondo lontano e puro, carico di energia e forza simbolica. Ad un orecchio attento rivelano una musica celeste». E, a proposito di musica, Mario, da anni coltiva la passione di costruttore «scultore» come è stato definito autodidatta e geniale di strumenti musicali a fiato o a percussione, strumenti che ricordano i flauti di Pan, ma anche quelli a becco, e poi nacchere, hang, bongo, e creazioni originali, con legni diversi, frutto dell’intuizione e della capacità di entrare in empatia con culture lontane nel tempo e nello spazio. Una stanza della sua casa è destinata alla conservazione di questi manufatti, davvero straordinari per numero e bellezza.
«Vorrei che i giovani apprezzassero di più l’arte afferma ; vorrei che si dedicassero alla fatica della creazione, con più assiduità. Il mondo sarebbe più sereno e in pace, perché dove c’è arte, bellezza, armonia, c’è rispetto reciproco».
Se è vero ciò che affermava Thomas Stearns Eliot, che «il progresso di un artista è un continuo sacrificio, una continua estinzione della personalità», chi ha fatto del colore la «ragione della sua vita», ha certamente qualcosa da dire alle nuove generazioni che cercano punti di riferimento e maestri cui ispirarsi. E Mario Ginocchi è uno di questi.