Il film: “Mariupol”, c’è vita sotto le bombe

Prima di allora,  Kvedaravicius era passato del tutto inosservato, sia con i suoi documentari sia col suo primo film di fiction, Parthenon, presentato al Festival di Cannes nel silenzio generale.

Per forza di cose, il suo lavoro più conosciuto oggi è Mariupolis, distribuito in Italia come Mariupol per evirare confusione (?), il documentario attraverso cui aveva raccontato la vita in sospeso nella città ucraina di Mariupol durante il conflitto a bassa intensità tra nazionalisti e separatisti, lo stesso conflitto, un po’ come il lavoro di Kvedaravicius, del tutto ignorato dall’opinione pubblica occidentale fino al momento della catastrofe.

Quella di Mariupol non è una cronaca del conflitto, ma una ripresa senza filtri della vita “nonostante” il conflitto, della quotidianità surreale e sospesa di una città che vive con gli allarmi, con le bombe, con un’escalation dietro l’angolo. Mentre la guerra nel Donbass prosegue senza esclusione di colpi, a Mariupol l’acciaieria continua a funzionare, giovani artisti organizzano saggi di danza e spettacoli teatrali, qualcuno si sposa e tiene il ricevimento in un ristornare con vetrata panoramica sui bombardamenti. Gli attentati e le esplosioni sono vicini ma non troppo, vissuti con stoica rassegnazione da una popolazione che si aggrappa alla propria vita “normale” nell’attesa del momento inevitabile in cui anche quel poco di rifugio, fisico e psicologico, verrà a mancare. Fino ad allora la guerra è una scomoda intrusa, quella che fa rimuginare una autista di autobus se la sua linea subirà ritardi per i bombardamenti, che ispira un calzolaio a lanciarsi in appassionati dibattiti di filosofia e teologia con la figlia durante il lavoro, che fa litigare i partecipanti a una manifestazione per il 9 maggio; è, però, lontana abbastanza perché i pescatori continuino con la loro attività all’alba, perché un prete dica Messa indisturbato per uno sparuto gruppo di donne e soldati, perché un campanaro incanti gli ascoltatori con i suoi virtuosismi, perché un addetto dello zoo continui a pulire le gabbie degli animali come se niente fosse.

Kvedaravicius gioca con questa “lontana vicinanza” della guerra per ricostruire la sensazione di un mondo in bilico, di una città che vive un precario equilibrio tra calma e tensione, tra inevitabilità e speranza. In questo senso, lo spettacolo teatrale che viene ripreso è il filtro e il senso dell’intero film, quello che rilegge il contesto con i canoni della tragedia classica (da qui anche il senso del titolo originale, in cui Mariupol viene grecizzata in Mariupolis), presentando un pugno di eroi che sono tali perché capaci di mantenere la propria dignità anche e soprattutto in spregio a un fato avverso, crudele e inarrestabile.

Tra il verismo e il mosaico, Mariupol alterna riprese amatoriali ad altre da documentario naturalistico, il tutto con l’intento di testimoniare la presenza della vita anche a due passi dalla morte, la testardaggine della speranza di fronte alla catastrofe, riuscendo nell’intento con brevi, precise pennellate.

Quello di Kvedaravicius è uno sguardo lucido, imperfetto ma in formazione, un altro tesoro che ora il mondo ha perso per sempre a causa di un conflitto ignorato fino a quando non è stato più possibile farlo.

 

MARIUPOL di Mantas Kvedaravicius. Francia, Germania, Lituania, Ucraina, 2016. Documentario.