Il film: “Caveman”, l’uomo che ha scolpito una montagna
Il culmine di questo itinerario personale è il progetto folle di scolpire un gigante dormiente all’interno di una grotta verticale delle Alpi Apuane, accessibile solo con corde e attraverso cunicoli, nel buio totale, nella solitudine e nel silenzio rotto dai colpi di scalpello. Un disegno titanico, assurdo, destinato a essere goduto soltanto da pochi privilegiati se non fosse per le immagini catturate da Landucci che, con pudore, comunicano la visceralità con cui Dobrilla incide il marmo, quasi un rapporto erotico tra l’uomo e la materia.
In quest’osservazione al tempo stesso distaccata e partecipe, colpisce l’estraneità dell’artista al mondo dei galleristi e degli eventi cultural-mondani, come quando lo vediamo con l’onnipresente Vittorio Sgarbi – cui pure si deve il riconoscimento critico di Dobrilla – circondato dal demi-monde modaiolo e marchettaro: è il tipico pesce fuor d’acqua e ci vien fatto di soffrire per lui a saperlo costretto a relazionarsi con quell’ambiente artefatto. E ancor di più si apprezza la riservatezza e la dignità che Dobrilla dimostra di fronte alla malattia che lo porterà alla morte, tra cure probabilmente palliative e contatto umano con i figli avuti da due diverse compagne.
Alla fine non assistiamo al suo funerale, ma al viaggio per l’istallazione di un suo Ulisse in bronzo in un antro sul mare, in Sicilia, trasportato prima come una salma in un carro funebre, poi sdraiato come un naufrago su una barca e infine rialzato, come risorto, per rimanere solitario, «incastrato volontario nel più tormentato buco di questo mondo»; dopodiché le ultime immagini tornano su Dobrilla che, dopo una seduta di lavoro nella grotta apuana, si corica, sotto una tenda, nel sacco a pelo, accanto al suo gigante nascosto, suo doppio destinato all’eternità: «sono ore, millenni che l’uomo è lì: respira lentamente, ascolta il suono della terra».