Il film: «La terra dei figli», un apologo contro l’abbrutimento

Talvolta fa bene confrontarsi con delle narrazioni che ci prospettano scenari cupi per la nostra civiltà e per il destino stesso dell’uomo, giusto per aprire gli occhi di fronte ai rischi che corriamo perdendo il senso dei valori autenticamente umani – e quindi anche cristiani. È ciò che ci propone questo film, tratto dalla graphic novel omonima di Gipi, l’apprezzato narratore pisano, i cui scenari post apocalittici sono resi plasticamente dal regista Claudio Cupellini in un film distopico come raramente capita di vedere nel cinema italiano (si deve risalire, forse, a Il seme dell’uomo, 1969, di Marco Ferreri per trovare qualcosa di simile). Diciamo subito che tra i punti di forza de La terra dei figli c’è la scenografia, di disarmante semplicità, tra paesaggi naturali desolati e inquietanti edifici abbandonati, tra i quali ciò che resta di una centrale nucleare; inoltre la fotografia, che rinuncia agli effetti speciali, ma gioca sui colori cupi e la disposizione dei personaggi rispetto all’ambiente, creando figurazioni che rimandano alla matrice fumettistica.

Il racconto, forse, perde un po’ di efficacia dalla pagina allo schermo, ma rimane un apologo su cui riflettere. Siamo in un futuro prossimo venturo, successivo a una non specificata catastrofe dovuta all’avvelenamento delle risorse naturali. I pochi sopravvissuti sono regrediti al livello di cavernicoli, preoccupati soltanto di sopravvivere e respingere i temibili assalti di qualche predone più forte. Nessuno sembra voler più mantenere memoria di quanto esisteva prima: della storia personale e collettiva che ha portato al disastro non c’è traccia, anche perché, come recita la didascalia iniziale, i libri non esistono più.

Solo un uomo, che vive su una palafitta con il figlio adolescente (e la presenza di un giovane è un’eccezione, in quanto si capisce che tutti i bambini a un certo punto sono stati eliminati), ancora si ostina a scrivere una sorta di diario, di nascosto dal ragazzo che è cresciuto con il puro istinto di sopravvivenza e che, senza scrupoli morali, può uccidere tanto gli animali per cibarsi quanto i potenziali avversari per difendersi.

Una volta rimasto solo, il figlio si avventura oltre il territorio protetto della laguna dove ha vissuto finora, per trovare qualcuno che sappia (e voglia) ancora leggere ciò che il padre ha tenacemente tramandato. Comincia così un viaggio iniziatico che lo porterà ad affrontare nuovi orrori, ma a scoprire finalmente il grande lascito paterno, estremo appello a considerare la propria semenza… A quel punto il ricordo, e il ricordo di un abbraccio in particolare, si farà strada nell’animo del figlio. E l’incontro con una ragazza di nome Maria, anch’ella scampata all’abominio collettivo, creerà le basi per un nuovo inizio.

La terra dei figli è un racconto allegorico, alle volte dalle tinte forti, ma dal forte richiamo simbolico (un padre e un figlio senza nomi; Maria; il valore salvifico contenuto nella parola del padre…) tutt’altro che ozioso. Certo, non tutto convince narrativamente (da dove salta fuori tutto quel carburante che usano per i motori delle barche?) e la durata risulta eccessiva, con qualche momento di stanca. Il lavoro del regista, comunque, si sente, sia nelle scelte figurative, come abbiamo già evidenziato, ma anche nella scelta degli interpreti, i cui volti, a cominciare dal giovanissimo protagonista Leon De La Vallée (già rapper con il nome di Leon Faun), sono tutti azzeccati. I loro sguardi, cattivi spaventati inquieti, sono quelli di un’umanità sprofondata all’inferno. Ma grazie alla parola tramandata, un barlume di redenzione si intravede. E un accenno di sorriso.

 

LA TERRA DEI FIGLI

regia: Claudio Cupellini; sceneggiatura: C. Cupellini, Guido Iuculano, Filippo Gravino; interpreti: Leon De La Vallée, Paolo Pierobon, Valeria Golino, Valerio Mastandrea; origine: Italia-Francia, 2021; durata: 2h.