Il film: “Corpus Christi”, una provocazione pastorale
Nel 1923 Chaplin realizzò un cortometraggio dove Charlot, galeotto evaso, si finge pastore evangelico e viene accolto in una piccola comunità divisa dove riesce, suo malgrado, a fare del bene prima di fuggire chissà dove. Qualcosa di simile racconta Corpus Christi, di Jan Komasa, anche se con un piglio assai più drammatico e con dei passaggi che – diciamolo subito – possono urtare la sensibilità di qualche spettatore.
Siamo in Polonia ai nostri giorni. Daniel, un giovane condannato per violenza e omicidio si ritrova in libertà. Diventato falegname nel riformatorio, verrà assunto nella segheria del villaggio da cui proviene il prete che lo ha assistito. Una volta raggiunto il posto, Daniel, che nonostante l’assuefazione alla brutalità ha sempre desiderato diventare presbitero, si troverà, quasi per gioco, a fingersi prete appena ordinato in transito per quelle zone. L’anziano parroco del luogo, dovendosi ricoverare, gli affida la comunità, affiancandogli la perpetua factotum Lidia, sospettosa e intransigente, poco favorevole verso il nuovo arrivato che fa troppe domande intorno a un lutto collettivo non ancora elaborato dalle famiglie del paese. Ciò che Daniel ha imparato dalle prediche del cappellano e dai suoi corsi terapeutici per scaricare la rabbia gli servirà per rendere credibile, anzi efficace, la finzione.
Il titolo latino del film ci offre due chiavi di lettura. La prima si lega polemicamente a una religiosità in cui l’immagine della Madonna e il suo culto sembrano prevalere su un’autentica fede in Cristo. A un dato punto ci viene mostrata una serie di madonnine oleografiche poste nei giardini di tutte le casette del villaggio quasi fossero divinità apotropaiche. Lidia, in chiesa, usa addirittura un telecomando per manovrare, durante la liturgia, una sorta di siparietto che scopre un’icona mariana, come a ribadire la priorità del ruolo della Madre. Ma nel finale, quando Daniel senza pronunciare parola confessa alla comunità di non essere il prete che tutti credevano, mettendo a nudo il suo corpo tatuato, ripreso in asse con quello altrettanto spogliato del crocifisso sull’altare, quella sovrapposizione figurativa fa di Daniel un alter Christus, una nuova vittima sacrificale che accetta di andare fino in fondo alla missione che ha capito essergli riservata. Anche a costo di ritornare all’inferno… Daniel ha cercato di aprire gli occhi dei presenti, fedeli di poca fede, devoti praticanti ma sepolcri imbiancati, lasciando un segno, creando scandalo. E non a caso, prima di svelarsi, con il telecomando richiude l’immagine di Maria a richiamare l’attenzione su di sé e sul crocifisso.
Non è difficile vedere in questi momenti un rimando alla chiesa polacca, sempre più tradizionalista e nazionalista, legata più alla Madonna di Czestochowa e alle statue di san Giovanni Paolo ii che non all’annuncio evangelico. La distanza tra la generazione dei genitori e quella dei figli, sia i defunti nell’incidente sia i vivi sboccati e disincantati che vediamo nel villaggio, è probabilmente da estendere a tutta la società polacca, cieca di fronte al degrado antropologico che ha dentro di sé e che si nasconde dietro le devozioni.
L’altra chiave di lettura ci è offerta quando vediamo Daniel “consacrare” durante una messa. Il regista, grazie a due inquadrature contigue, rivela una partecipazione eucaristica di rado espressa sullo schermo: prima, più tradizionalmente, mostra Daniel con l’ostia di fronte; poi, con un’immagine innovativa, ne mostra il controcampo, cioè l’ostia vista da lui in soggettiva. Anche se ciò a cui assistiamo è formalmente un sacrilegio, Daniel lo vive come un sacramento, convinto, nella sua fede ribelle, che quel pane stia diventando davvero Corpus Christi. Da meditare.
Corpus Christi (Boże Ciało)
Polonia 2020
regia di Jan Komasa
sceneggiatura di Mateusz Pacewicz
con Bartosz Bielenia e Aleksandra Konieczna,
115 min.