Il film: “Minari”, attraversare la diversità per affrontare il futuro

Con Minari, Lee Isaac Chung, cineasta statunitense di origini coreane, racconta una storia intima e delicata incentrata su temi universali. Siamo nel 1983 e la famiglia Yi si è appena trasferita dalla California all’Arkansas. Jacob, il padre, vuole realizzare il sogno di coltivare ortaggi provenienti dalla propria terra per soddisfare le richieste dei compatrioti che vivono negli Stati Uniti. Acquista un appezzamento di terra con al centro un modulo abitativo prefabbricato, che si eleva da terra poggiandosi su delle ruote (altra casa non convenzionale come nel pluripremiato Nomadland), ma la moglie Monica non riesce ad adattarsi al nuovo stile di vita anche perché, rispetto al marito, è rimasta legata al mondo asiatico. Intanto, i figli, David e la più grande Anne, diventano spettatori attoniti di forti dissapori domestici, fino a quando l’arrivo dal lontano oriente della nonna materna Soon-ja farà precipitare gli eventi verso la catastrofe che precederà la riconquista dell’armonia.

In Minari, sul grande schermo e su Sky Cinema, c’è molto di autobiografico del regista e la macchina da presa, posta spesso ad altezza di bambino, sembra volerci raccontare attraverso gli occhi di David il mondo che Chung ha vissuto in prima persona. E proprio il figlio più piccolo (interpretato da un sorprendente Alan Kim) e la nonna Soon-ja (la bravissima Yoon Yeo-jeong, premio Oscar 2021) sono i protagonisti della storia. Seppur entrambi malati, (lui è cardiopatico) posseggono la forza emotiva per ingenerare uno scontro generazionale e culturale in grado di dare una scossa all’intera famiglia, ancorata tra tentare un’integrazione forzata o arrendersi ad un definitivo isolamento volontario. David, che disprezza la nonna perché non sa cucinare i biscotti e puzza di Corea, indossa anche d’estate degli stivaletti da cow-boy americano; Soon-ja, dorme sul pavimento e si accovaccia come le donne orientali, non conosce la diplomazia familiare e tantomeno gli usi e costumi degli occidentali.

La serie delle contraddizioni tra la cultura americana e quella coreana, tra l’altro, sono evidenziate dalle vicende dello stesso film: statunitense nella produzione e nella location (Tusla, Oklahoma), bilingue nella realizzazione, coreano nell’aggiudicarsi il Golden Globe come miglior film straniero. Rilevante la messa in scena del rapporto dei personaggi con la fede: mentre l’amico americano Paul vive una religiosità molto esteriorizzata, la famiglia Yi è desiderosa di partecipare alla preghiera collettiva della comunità che li sta ospitando e di vivere una spiritualità più intima, dove la ricerca della verità possa riappropriarsi dei significati più profondi. Accompagnato da una meravigliosa fotografia, che rende le sfumature del verde una poetica tavolozza pittorica, e da una colonna sonora che contribuisce ad esaltare l’epica familiare del racconto, Minari è la narrazione della rivincita della natura sull’uomo.

Se non rispettati, l’acqua, la terra e il fuoco possono diventare un nemico invincibile; al contrario, circoscritto l’incendio (non solo emotivo) che avvampa nella piccola famiglia, il sapiente incontro tra il ruscello e gli argini che lo accompagnano diventerà fondamentale per far crescere il minari. Un’erba aromatica, quest’ultima, conosciuta anche come il prezzemolo giapponese che diventerà simbolo della tanto agognata ibridazione sociale. Poiché, come ci ricorda Soon-ja, nascendo ovunque spontanea è per tutti e “ricchi e poveri se ne possono nutrire indistintamente”.

 

MINARI

di Lee Isaac Chung.

Con Steven Yeun, Han Ye-ri, Alan Kim, Noel Cho, Yoon Yeo-jeong, Will Patton.

Produzione: Plan B Entertainment; USA, 2020

Drammatico

Durata 1h 55min