Il film: “Atlantique”, quando l’oceano diventa una barriera tra due mondi
Qualcuno ricorderà il nome di suo zio, Djibril Diop Mambéty, autore di film fondamentali per la cinematografia africana come Iene (1992, ispirato a Dürrenmatt) e La piccola venditrice di sole (1999). Nipote d’arte, dunque, Mati Diop dimostra di mettere a frutto l’eredità familiare.
Siamo a Dakar, metropoli contraddittoria a partire dal suo profilo di catapecchie, tra strade sterrate e sporche, su cui si staglia un imponente grattacielo in costruzione, non si sa a chi destinato. Di certo non ai giovani manovali che vi lavorano e che vediamo protestare inutilmente, a inizio film, per i quattro mesi di arretrati sul salario. Uno di loro, mite e gentile, si chiama Suleiman ed è innamorato di Ada, promessa sposa al benestante Omar. Le nozze sono alle porte, ma Ada sembra rimandare il problema e, con tipico atteggiamento adolescenziale, confida in qualche avvenimento risolutivo che venga dall’alto. Succederà.
Al primo impatto il racconto procede con un taglio descrittivo: vediamo l’ambiente di degrado dove vivono i protagonisti, ma anche le piccole scimmiottature di uno status di benessere europeo negli arredamenti e negli atteggiamenti. Per uno spettatore italiano, l’insieme rimanda a certe zone degradate del sud dove spesso si rifugiano i boss della malavita con i loro mobili pacchiani, gli stessi che il fidanzato di Ada ha preparato per la loro futura dimora. Poi la situazione si complica e si tinge di mistero. L’aspetto più interessante del film è il mélange tra lo stile della prima parte, che ricorda il cinema dei Dardenne, con la macchina da presa che osserva la realtà per rivelarla allo spettatore, e la seconda in cui il racconto prende delle tinte horror in quanto Suleiman e i suoi compagni, che nel frattempo hanno tentato di emigrare clandestinamente per guadagnare qualcosa, ritornano, dopo un tragico naufragio, sotto forma di fantasmi che vanno a portare scompiglio nel quartiere. Il primo segnale inquietante della presenza di questi “zombie” è l’inspiegabile autocombustione del letto matrimoniale di Ada e Omar, invidia di tutte le amiche di lei. Del fatto si occupa Issa, un giovane poliziotto alle prime armi che cerca di esercitare il suo incarico con una certa professionalità nonostante i suoi capi si dimostrino conniventi con il potere. Sarà attraverso la sua persona che Suleiman riuscirà a raggiungere Ada e amarla compiutamente, come mostra la bella sequenza in cui la ragazza si trova a conoscere il corpo di uno e lo spirito dell’altro, mostrati alternativamente in un poliedrico gioco di specchi.
La chiave di tutto sta nel verbo possedere, che vale tanto per il sesso, quanto per lo spiritismo che per i beni materiali. Tutti sono posseduti e vogliono possedere, a cominciare dalle amiche di Ada criticate per i loro atteggiamenti disinibiti dagli anziani, gli unici a mantenere un qualche legame non formale con l’Islam. Ada, nonostante frequenti quel gruppo, non si lascia corrompere e crede nell’amore puro di Suleiman così come Issa crede nella giustizia. Per tutti gli altri ci sono le contraddizioni di una società che non è più animista o musulmana ma è posseduta dallo spirito del consumismo. A contrappuntare il tutto c’è il mare, quell’oceano Atlantico del titolo, cui la regista dedica lunghe parentesi minacciose come a indicare una barriera che separa due mondi, il terzo dal primo, ma anche quello dei vivi da quello dei morti. Chi cerca di varcarla verrà punito.