Pinocchio
Come aveva già dimostrato Il racconto dei racconti, infatti, Garrone non ama allontanarsi troppo dalla realtà per addentrarsi nel fantastico a tutto tondo. Non lo ha fatto con il testo di Basile, non lo fa con quello di Collodi. Basterebbe la qualità della fotografia di Nicolai Brüel ad allontanare il sospetto del Luna Park, con le sue tonalità di preferenza scure, la sua attenzione a un paesaggio di roccia e polvere. Ma parlano chiaramente anche alcuni effetti speciali: il paese dei balocchi è liquidato con qualche salto nel fieno (davvero: nessuna giostra), il pescecane evoca un artigianato da bottega di lunga tradizione, i burattini di Mangiafuoco sono palesemente attori cui sono stati ridipinti i lineamenti e attaccati i fili. Se proprio vogliamo indicare qualche traccia di fantastico, bisogna tornare al naso del burattino che si allunga quando Pinocchio dice le bugie e che gli uccellini riportano a dimensioni normali a forza di beccate. Perché, evidentemente, i colori e i luoghi della fiaba non interessano Garrone, che prosegue sulla sua strada di realismo senza in realtà tradire minimamente lo spirito di Collodi. Salvo perdere per strada un elemento fondamentale di Pinocchio che è quello dello spirito ribelle che Comencini aveva ben rappresentato e che qui diventa invece una sorta di rassegnazione agli eventi della vita in attesa del giorno di diventare un bambino vero.
La storia la sanno tutti (o almeno dovrebbero). Il falegname Geppetto, povero di professione, riceve in regalo da mastro Ciliegia un bel pezzo di legno e lo trasforma in un burattino che subito prende vita e mostra un’indole poco remissiva e molto indipendente. Ma, mentre Geppetto lo cerca per ogni dove, lui incontra prima il burattinaio Mangiafuoco, che si intenerisce e gli regala cinque zecchini d’oro, poi il Gatto e la Volpe che cercano di derubarlo e lo impiccano a un albero, quindi la Fata Turchina che lo segue con amore attendendo un segnale di crescita. Dopo la fuga con Lucignolo verso il paese dei balocchi e la metamorfosi in asino, Pinocchio ritroverà finalmente Geppetto nel ventre del pescecane e con l’aiuto di un tonno tornerà sulla terraferma. La Fata, compiaciuta della sua bontà d’animo, lo trasformerà in un bambino vero.
Diversissimo dal Pinocchio di Roberto Benigni, che puntava tutto sui colori sfavillanti e sulle scenografie costosissime, questo di Garrone recupera la radice popolare del racconto e, intelligentemente, punta proprio su Benigni per il ruolo di Geppetto. Il risultato è che Benigni, costretto a interpretare una parte limitata e definita, non può perdersi nella caratterizzazione sopra le righe del burattino e dimostra cosa può fare quando è concentrato e ben diretto. Pinocchio è Federico Ielapi, che di legno non è ma è truccato come tale. Ci è parso però che la figura migliore tocchi a Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, Volpe e Gatto, che si dimostrano caratteristi eccellenti anche perché contenuti dal regista nelle loro fanfaronate. Alla fine è la Fata Turchina di Marine Vacth ad avere più spazio e meno rilevanza, perché appare chiaro che la sua partecipazione si risolve più in una presenza fisica che in un carattere delineato con forza. Di sicuro il messaggio dei problemi della crescita in un mondo che non regala niente a nessuno arriva forte e chiaro. Ma è anche evidente la sottolineatura dell’amore paterno, che porta a episodi e atteggiamenti toccanti senza alcun eccesso sentimentale. Possiamo dire che Matteo Garrone, svariando da Sinalunga a Ostuni, da Polignano a Mare a Altamura, ci ha convinti facendoci riscoprire un’Italia campestre che avrebbe rallegrato anche Collodi.
PINOCCHIO di Matteo Garrone. Con Roberto Benigni, Federico Ielapi, Gigi Proietti, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo, Marone Vacth, Paolo Graziosi. I/GB/F 2019; Fiaba; Colore.