Il paradiso probabilmente
Ama il paradosso, il surrealismo, il sorriso, l’osservazione, l’astrazione, il grottesco e usa tutto questo non per far ridere, ma per parlare di situazioni drammatiche che non devono mai perdere lo spessore tragico e favore di uno sberleffo. Ecco, Il paradiso probabilmente è un dramma in forma di sorriso.
E Suleiman non è un comico: il fatto che ami moltissimo Buster Keaton e Jacques Tati e che come loro si trasformi in osservatore silenzioso della realtà che lo circonda evidenziandone gli aspetti più illogici e paradossali non equivale a una volontà di mettere tutto in burla. In fin dei conti, è sempre esistito un legame molto stretto tra comicità e tragedia. Le due maschere teatrali viaggiano sempre in coppia. Ecco perché non serve a niente soppesare quanto i gag del film funzionino o meno: Il paradiso probabilmente non è una comica finale, ma il proseguimento di una riflessione sulla Palestina iniziato con le medesime tonalità in Il tempo che ci rimane e qui esteso ad altre parti del mondo. E, essendo la riflessione di un poeta, bisogna mettere in conto scelte condivisibili e altre più difficili da mettere a fuoco.
Il protagonista è lo stesso Suleiman, nella parte di se stesso. A Nazareth succedono cose strane: il vicino di casa gli ruba i limoni, ma poi pota e annaffia la pianta; un gruppo di giovani armati di bastone corrono chissà dove; un altro vicino gli racconta dell’incontro con un serpente e di uno scambio di cortesie. E lui, che osserva tutto apparentemente attonito, prende nota e aspetta di utilizzare tutto in un film. Ma ci vuole un produttore e Suleiman va a cercarlo a Parigi, dove tutti corrono senza scopo apparente e dove le indossatrici sfilano ovunque e ad ogni ora. Il produttore pensa che il film non sia «abbastanza palestinese» e non è interessato. Allora troviamo Suleiman a New York, dove tutti girano armati, la polizia insegue un angelo in Central Park e un taxista gli regala la corsa perché è il primo palestinese che vede. Alla fine, di ritorno in Palestina, Suleiman si sofferma a guardare dei giovani che ballano in un locale. Ma intanto, anche se l’idea di casa resta sempre un po’ lontana, le sue annotazioni sono diventate un film.
L’idea di fondo è proprio quella di poter realizzare un film per raccontare una terra tormentata nella quale due ubriachi sabotano il rito pasquale rifiutandosi di aprire dall’interno la porta del sepolcro. E a ben guardare non c’è altra speranza che il film finito, nel quale si raccontano le piccole e grandi follie che abitano il mondo intero e che l’artista, nel suo mondo personale, può anche pensare di smascherare con qualche gioco di prestigio o con qualche visione imprevista.
La peculiarità di Elia Suleiman, a ben guardare, è quella di essere un palestinese triste che grazie al sorriso non permette mai alla rabbia di guidare le sue azioni. La scelta di incarnare un personaggio praticamente muto è molto esplicativa delle sue intenzioni: nessuna predica, nessuna frase celebre o ultima parola famosa, perché tutto ciò che c’è da capire resta affidato alle immagini. Questo, come si può facilmente capire, ci riporta alle origini del cinema, all’assenza della parola e alla necessità di spiegare tutto in forma visiva.
Per questo, anche se Il paradiso probabilmente sembra una raccolta di scenette slegate, bisogna andare oltre per comprenderne e apprezzarne la coerenza e il valore. Ci sta tutto: il passerotto che disturba Suleiman impegnato al computer, il metal detector che si trasforma in un attrezzo da equilibrista, le ali dell’angelo abbandonate in Central Park, la corsa alle sedie intorno al laghetto degli Champs Élysées e la voglia di tornare a casa in un posto che come stato sovrano ancora non esiste. Il cinema di Suleiman non è paragonabile a nessun altro.
IL PARADISO PROBABILMENTE (It Must Be Heaven) di Elia Suleiman. Con Elia Suleiman, Gael Garcia Bernal, Nancy Grant, Stephen McHattie. FRANCIA/CANADA 2019; Commedia; Colore.