Il signor diavolo

Il ritorno di Pupi Avati all’horror, che periodicamente si affaccia nel suo cinema dalle radici eminentemente popolari, dovrebbe indurci a chiederci se la cosa sia dovuta a un particolare periodo della sua carriera che lo vede attivo da qualche anno soltanto in televisione. Il richiamo del grande schermo, pertanto, non avrebbe potuto che manifestarsi con un film la cui proiezione televisiva sarebbe stata francamente problematica. Possibile, ma assomiglia pochissimo all’Avati che conosciamo noi e che, indipendentemente dal gradimento o dalla richiesta del pubblico, scrive e dirige un film soltanto quando ne è sicuro e si sente di farlo. Allora Il signor diavolo deve avere altre motivazioni che sta a noi cercare di individuare.

Nei primi anni Cinquanta (più precisamente dovrebbe essere il 1952) Furio Momentè è inviato in Veneto dal Ministero da cui dipende con il compito specifico di indagare con discrezione su un delitto scomodo. Il piccolo Carlo ha ucciso il quasi coetaneo Emilio (a sua volta accusato a mezza voce di aver ucciso la sorellina neonata a morsi) affermando che in lui albergava il diavolo. In considerazione del serbatoio di voti che per la Democrazia Cristiana rappresenta quella regione, Momentè non è incaricato di far luce, ma di insabbiare evitando che gente di Chiesa coinvolta nel caso possa mai essere processata o anche chiamata a testimoniare. L’ingenuo giovanotto, che non ha mai ricevuto incarichi di prestigio, ne è lieto. Ma scoprirà che, fra tradizioni popolari e superstizioni, fra paure sotterranee e una diffusa omertà, il caso è molto più terrificante di quanto sembra. E lo scoprirà a proprie spese.

Non possiamo fare a meno di palesare una sensazione che ci ha accompagnati per tutto il film, quella cioè che questa volta e mai come in passato Avati abbia realizzato un film ricco di elementi che, invece di attirare il pubblico, sembrano fatti apposta per respingerlo. Il che non è una stupidaggine, ma un autentico atto di coraggio. Senza preoccuparsi di aggiustare i toni, di creare atmosfere che pur pesanti preludono a un chiarimento purificatore, di decolorare una realtà che nessun colore potrebbe rendere meno allucinante (anzi, la sua intenzione primaria era quella di far circolare il film in bianco e nero), di presentare una galleria di personaggi che per quanto fulminee possano essere le loro apparizioni lasciano comunque una scia di ambiguità, di malattia, di crudeltà e di malvagità che non dà scampo, Avati sembra ripercorrere tematiche già affrontate e luoghi già raccontati. Ma sbaglierebbe chi lo accusasse di rifare se stesso.

Ad esempio, l’assenza di speranza che ha contraddistinto tutte le sue storie di paura qui diventa qualcosa di ineluttabile e di veramente cupo, fino ad arrivare a un finale che costringe a meditare sulle radici del male, sulla capacità di manipolare le esistenze altrui, sulle illusioni che si infrangono a contatto con la malvagità del prossimo.

Ci sembra il caso di dire, quindi, che Il signor diavolo sia un passo avanti nella capacità di analizzare l’animo umano, anche se le risultanze sono tutt’altro che rassicuranti. Che, d’altronde, non poteva essere che l’unica destinazione di un film che, invece di raccontare l’ennesimo scontro tra il bene e il male, ha scelto di raccontare l’incidenza del male nelle nostre vite indipendentemente dal fatto che qualcuno possa provare ad opporsi. Il signor diavolo racconta una cosa per niente bella e lo fa usando toni per niente concilianti: fare il male senza secondi fini (brama di potere, denaro, piani a breve o lunga scadenza di vario genere), ma semplicemente per il gusto di farlo. Non si sbaglia dicendo che Il signor diavolo, rispetto ad altri horror dell’autore, si rivela un film che alla fine non fa paura. Ma di certo trasmette un disagio e un disturbo che probabilmente avranno effetto più a lunga scadenza.

IL SIGNOR DIAVOLO di Pupi Avati. Con Gabriel Lo Giudice, Filippo Franchini, Chiara Caselli, Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Alessandro Haber. ITALIA 2019; Horror; Colore.