Oro verde – C’era una volta in Colombia

Oro verde – C’era una volta in Colombia sembra quasi un film di gangster: in fin dei conti l’idea di famiglia appartiene tanto alla tradizione dell’uomo quanto all’attività criminale, con tutte le differenze che intercorrono tra le leggi che le regolano. E indubbiamente è anche un film di gangster, che però non scivola mai nei luoghi comuni del genere perché è un altro il suo obiettivo. I gangster rappresentano l’alternativa a una vita le cui regole sono scritte e seguite da secoli ma che nel momento del passaggio richiede la riscrittura di quelle stesse regole per trovarsi in linea con il cambiamento. È per questo che il film è suddiviso in due parti molto diverse, con ritmi diversi e anche diversi protagonisti. Nella prima Guerra e Gallego rappresentano le famiglie dei Wayuu, le loro tradizioni, i rituali del corteggiamento, della presentazione della dote, l’attenzione ai segni del cielo (e specificamente agli animali, di preferenza uccelli, che non si mostrano mai a caso). Nella seconda, invece, subentra l’ingresso massiccio dei nuovi padroni del mercato che, con i mezzi che usano, fanno presto a sgombrare il campo da inutili rallentamenti e ostacoli.

Il discriminante sta nella risposta a una semplice domanda della capofamiglia Ursula al futuro cognato Rapayet: «Come hai fatto a trovare la dote così presto?». «Ho venduto marijuana ai gringos». Da quel momento le richieste dei gringos diventano sempre più grandi e la struttura familiare finisce per trasformarsi, così come si trasformano, nel giro di vent’anni, i rapporti con le famiglie vicine, soprattutto quando una di queste è la principale coltivatrice e fornitrice di marijuana (l’oro verde). Gli affari cambiano faccia a tutto e tutti. Trasgressioni alla tradizione che una volta sarebbero state impensabili entrano nell’uso comune. E alla fine la battuta di Rapayet «Siamo già tutti morti» non si riferisce esattamente alla morte fisica, ma a tutto quel che è stato perduto della propria natura e della propria terra.

Oro verde (che in originale si intitola Pájaros de verano, cioè Uccelli di stagione) è un film denso, particolarmente partecipato, capace persino di affondare le proprie radici non soltanto nella storia della Colombia, ma anche nel patrimonio culturale dell’umanità. Appare evidente, infatti, come le drammatiche vicende della famiglia protagonista siano facilmente paragonabili a certe sanguinose saghe familiari della tragedia greca molto più che a storie di mafia o criminalità generica. In questo senso si inseriscono perfettamente nel racconto i riferimenti agli sciamani, all’interpretazione dei sogni, agli spiriti senza pace e agli animali portatori di sciagure.

Così, senza perdere un colpo nel ritmo e nella coerenza della rappresentazione, Guerra e Gallego realizzano né più né meno un film antropologico di grande valore formale e di grande significato umano, riuscendo a descrivere tutti i drammatici passaggi più e meglio di un manuale universitario. E ottengono il meglio anche dagli attori, con particolare riferimento alla monumentale Ursula interpretata da Carmiña Martinez e allo zio Peregrino di José Vicente.

La verità, che fa di Oro verde un film superiore alla media, è che i due registi non cedono mai alla tentazione di trasformarlo in un film di genere, per quanto le situazioni rappresentate lo consentissero. Parlano invece del loro paese e di tutto ciò che lo ha trasformato da una terra caratterizzata da un’economia arcaica in un paese civilizzato, capitalistico e all’avanguardia nel traffico di droga. Un bel progresso.

ORO VERDE – C’ERA UNA VOLTA IN COLOMBIA (Pàjaros de verano) di Ciro Guerra e Cristina Gallego. Con Carmina Martinez, José Acosta, José Vicente. COL/DNK 2018; Drammatico; Colore.