L’isola dei cani

Wes Anderson è un autore difficilmente afferrabile per molti motivi. Ha sempre privilegiato il paradosso e il grottesco con una grande attenzione all’aspetto scenografico, ha rivelato particolari bizzarri come la frequente simmetria delle inquadrature nelle quali gli elementi sulla destra e sulla sinistra vengono a creare un preciso equilibrio interno, è sfuggito spesso a qualunque possibilità di catalogazione o etichettatura, ha optato per un costante sottofondo politico che talvolta si fa preminente.

In sostanza, può essere definito uno sperimentatore, di quella razza che inevitabilmente pareggia il conto tra estimatori, detrattori e non interessati (una specie di SÌ, NO, NON SO). Da parte nostra non abbiamo mai aderito ai suoi percorsi, ritenendolo più bizzarro che ispirato.

Tuttavia, siccome è un’opinione che rientra chiaramente nel NON SO, niente vieta che possa capitare qualche episodio che sposta l’ago della bilancia. E questo episodio è L’isola dei cani, film d’animazione in stop-motion.

Giappone, 2037. Una grave influenza canina induce le autorità di Megasaki City a decretare l’espulsione dei quadrupedi e il loro confinamento nell’isola che serve da discarica. Il dodicenne Atari Kobayashi, figlio adottivo del sindaco, vuole a tutti i costi recuperare il suo cucciolo, Spots, che è stato il primo ad essere deportato, e raggiunge l’isola con un aereo. Qui troverà cani buoni e cani incattiviti dalla solitudine e dall’abbandono. Chief, in particolare, dà mostra di essere un randagio scorbutico e refrattario alle tenerezze, ma cova nel proprio interno un’indole da animale domestico. In Giappone, intanto, uno scienziato sta studiando un antidoto contro la malattia dei cani e deve battersi contro l’autorità che vorrebbe metterlo a tacere. Urge una vera e propria missione di salvataggio.

Anderson è in grado di padroneggiare il tema politico affidandosi alla forma. Alterna così scene affollatissime ad altre in cui il singolo sembra perso in un universo desertico, in modo da poter sottolineare l’importanza del contributo individuale quando finalizzato a una rilettura collettiva. E soprattutto, liberandosi molto presto della rappresentazione scolastica delle forze contrarie, mostra di saper analizzare con una certa profondità le ragioni degli ultimi. I quali non sono un tutt’uno, ma un magma eterogeneo che soltanto la consapevolezza dello scopo sarà in grado di unire al di là di ogni diversità. Qui L’isola dei cani rivela le fonti, che significativamente non appartengono al cinema d’animazione.

Certo, la scelta dell’ambientazione giapponese (rischiosa, bisogna dirlo) permette all’autore di rileggere una cultura pop che da Godzilla alle conseguenze dell’atomica rappresenta un punto di forza dell’immaginario nipponico. Ma non è soltanto cultura pop.

Dal film di Anderson emergono evidenti i riferimenti ai maestri giapponesi come Akira Kurosawa («Cane randagio», «L’angelo ubriaco») e Yasujiro Ozu (non un film, ma la simmetria delle immagini e il lento, impercettibile contributo della macchina da presa). E se animazione dev’essere, è impossibile ignorare il contributo di Hayao Miyazaki: Atari Kobayashi, il piccolo pilota coraggioso, sembra proprio una rilettura del protagonista di «Si alza il vento», anche se non bisogna ignorare i riferimenti a «Il piccolo principe» di Saint Exupery.

E, tra le righe, qualche riferimento a un maestro che non è giapponese, ma universale: l’eterno vagabondo Charlie Chaplin che si ritrova in alcuni atteggiamenti di Chief e nel mix di bontà e cattiveria che l’hanno sempre contraddistinto.

Ce n’è per tutti, insomma. Anche per quelli che, in occasione dell’anniversario della nascita di Karl Marx, hanno riaperto il dibattito sull’attualità del suo pensiero. L’isola dei cani è cinema politico illuminato dal faro della fantasia. E Wes Anderson, questa volta, ci ha convinti quasi senza riserve.

L’ISOLA DEI CANI (Isle of Dogs) di Wes Anderson – USA 2018; Animazione; Colore.