Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Mi sembra fondamentale il fatto che Martin McDonagh, regista e sceneggiatore di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, sia irlandese. Ciò gli permette di raccontare una storia che molto probabilmente in mani americane si sarebbe trasformata in un concentrato di luoghi comuni e di renderla invece imprevedibile, piena di fermenti e straordinariamente vitale. Come era accaduto per In Bruges e, in misura minore, per 7 psicopatici, McDonagh prende un genere e lo trasforma. E in questo caso era veramente difficile: una cittadina di provincia, poliziotti violenti e razzisti, una madre che vuole giustizia per la morte della figlia, tensioni in costante aumento, tutto creava le premesse per una vicenda di giustizia privata e un’esplosione di violenza dall’una e dall’altra parte. Invece no. McDonagh, con intelligenza e soprattutto con una sceneggiatura eccezionale, forse lascia intendere quanto sopra per poi, in corso d’opera, cambiare genere e soprattutto cambiare la gente. Se abitualmente è normale che un buono possa andare sopra le righe, un cattivo proprio non possa rivedere le proprie posizioni e il bianco e il nero difficilmente cambino tonalità in una delle tante intermedie, in Tre manifesti a Ebbing, Missouri accade proprio questo. Il thriller diventa commedia nera e i personaggi, senza che la drammaturgia perda un colpo, progressivamente cominciano a riflettere e a fare qualche passo indietro (o avanti, a seconda dei punti di vista).
A Ebbing, nel Missouri, è stata violentata e uccisa Angela Hayes. Sette mesi dopo il fatto, sua madre Mildred non ha ancora avuto notizia di alcun progresso nelle indagini della polizia e decide di passare all’azione. Prende in affitto tre cartelloni pubblicitari su una strada poco frequentata e affigge tre manifesti: «Stuprata mentre moriva», «E ancora nessun arresto», «Come mai, sceriffo Willoughby?». La cosa, come è immaginabile, suscita un putiferio di reazioni (dalla polizia al parroco al dentista e via discorrendo) che non spostano Mildred di un centimetro. Ma, se lo sceriffo Willoughby è un personaggio moderato e riflessivo, il poliziotto Dixon è un violento, un alcolizzato e un convinto razzista e non esita a passare alle vie di fatto nell’illusione di riportare l’ordine con la forza. Il suicidio di Willoughby, malato terminale, rischia di dar fuoco alle polveri. E invece sarà proprio lui, con le sue lettere post mortem, a costringere i destinatari a riflettere.
È ovvio che non possiamo andare oltre nel racconto. Ma chi si aspettasse fuochi artificiali e rese dei conti sarebbe sulla strada sbagliata. McDonagh, camminando su un terreno minato, riesce a definire i personaggi in modo da rendere addirittura plausibile ciò che sta per accadere. E soprattutto fa una cosa coraggiosa, giusta e non negoziabile: non dà una conclusione al suo film, come a dire che lo spettatore deve decidere da solo (che non è il motivo principale) ma soprattutto che, come le cose sono cambiate, possono cambiare ancora. Sono le regole della vita vera, non di quella cinematografica.
Tutto questo si sarebbe capito lo stesso, ma sarebbe stato meno intenso e credibile se McDonagh non avesse scelto gli attori giusti: una straordinaria Frances McDormand (premio Oscar per Fargo) nel difficile ruolo di Mildred che le permette di dominare il film trasmettendo rabbia, dolore, paura, minaccia e amore quasi senza mai sorridere; un essenziale Woody Harrelson nel ruolo di Willoughby, sceriffo saggio e lungimirante; e un perfetto Sam Rockwell nel ruolo di Dixon, il personaggio più a rischio di ovvietà che invece riesce a condurre pazientemente a un’imprevedibile posizione di stallo. Sembra poco, ma affrontare un genere ormai codificato e riuscire a sorprendere non è impresa da tutti. Proprio per questo motivo, di Tre manifesti a Ebbing, Missouri ci ricorderemo.
TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) di Martin McDonagh. Con Frances McDonagh, Woody Harrelson, Sam Rockwell. USA/GB 2017; Drammatico; Colore.