L’infanzia di un capo
Sarebbe obiettivamente riduttivo etichettare L’infanzia di un capo come un’analisi della nascita del nazismo. Il film d’esordio di Brady Corbet (attore in «Funny Games», «Melancholia», «Sils Maria» e «Escobar»), inglese ambizioso e disposto al rischio, va oltre i confini della storia ed esamina senza timore di esagerare i problemi della crescita, la cattiveria infantile (argomento rischiosissimo), la predisposizione al male, la prospettiva di un futuro sempre più grigio, i rapporti di classe e tutto quel che gli serve per andare alle radici del malessere, alle sue conseguenze e a uno sguardo gelido e premonitore sul futuro dell’uomo. Ovvio che il nazismo possa essere un terreno fertile. E siccome Corbet non si vergogna di dichiarare ispirazioni e maestri, troviamo in ordine sparso le radiografie delle sconfitte umane care a Kubrick, la desolazione esistenziale di von Trier, lo sguardo tagliente e talvolta disumano di Haneke, il rigore formale di Dreyer. E, se vi par poco, un insieme che non può essere etichettato come figlio di uno solo dei suddetti, ma che reclama una propria autonomia di stile e di procedimenti narrativi. Con tutti i rischi che comporta un argomento così vasto e così schematizzabile, L’infanzia di un capo non lascia indifferenti.
Nel 1919, a guerra appena finita e alle soglie del trattato di Versailles che avrebbe dovuto rimettere in ordine i confini dell’Europa, nei pressi di Parigi, in aperta campagna, vivono un consigliere del Presidente Wilson, sua moglie e il figlio Prescott, ancora bambino. Mentre fervono le trattative e gli sforzi diplomatici, Prescott vive una difficilissima crescita nella quale è assolutamente assente l’elemento maschile. Il bambino capirà presto quale possa essere la forza di convinzione (più ancora, prevaricatrice) intrinseca alla sua età e quanto il mondo degli adulti sia debole e manipolabile. Mentre i grandi credono di fare la storia, lui si appresta a diventare il leader di un movimento nazionalista senza nome. È il destino dell’uomo.
Accompagnato dall’ossessionante commento musicale di Scott Taylor, L’infanzia di un capo mette realmente a disagio nell’accumulo di situazioni estreme che, dopo una falsa impressione di gratuità, si dimostrano accuratamente predisposte e finalizzate al raggiungimento dell’obiettivo. Con qualche sorpresa che non sembra proprio indispensabile, Corbet dimostra un piglio sicuro e un’aggressività insolita nei confronti del pubblico, nella convinzione che l’argomento trattato non abbia bisogno di alcun compromesso per colpire nel segno.
Così l’uso degli attori è parimenti complementare alla linea narrativa principale: Bérénice Bejo è una donna dell’alta società che sconta complessi e inferiorità; Liam Cunningham il diplomatico molto più preoccupato del proprio ruolo pubblico che dell’andamento familiare; Robert Pattinson, quieto e in disparte, l’amico di famiglia che potrebbe sconvolgere alcuni equilibri; e Tom Sweet, al suo esordio, un Prescott incredibilmente ambiguo e assolutamente predisposto al difficile compito di incarnare il figlio che nessuno vorrebbe avere. Se passiamo sopra ad alcune sottolineature che non sembrano necessarie e che rischiano di ridurre l’impatto simbolico del film, bisogna dire che Corbet ha perfettamente assimilato la lezione dei maestri realizzando un film disturbante, spiazzante e sottilmente crudele. In tal senso è Michael Haneke ad arrogarsi il ruolo di ispiratore principale per aver trattato con spietato realismo la nascita del nazismo ne «Il nastro bianco».
Ma le varie componenti stilistiche fanno sì che Il destino di un capo si ritagli uno spazio personale senza poter essere confinato nei limiti di un’ispirazione piuttosto che di un’altra. Un esordio come questo induce a chiedersi come potrà mai essere il prossimo film.
L’INFANZIA DI UN CAPO (The Childhood of a Leader) di Brady Corbet. Con Bérénice Bejo, Robert Pattinson, Liam Cunningham, Tom Sweet. GB/HUN/B/F 2015; Drammatico; Colore.