Una Vita

Con sei romanzi, due incompiuti, qualche opera teatrale e una quantità di racconti e novelle, Guy de Maupassant si è imposto nell’arco di una breve vita come uno dei narratori francesi più profondi, coerenti e stilisticamente dotati. La sua caratteristica più marcata sta nel disprezzo per le meschinità medio borghesi e in una sorta di accorata difesa dei più deboli. Il suo primo romanzo, «Una vita», è datato 1883.

Stéphane Brizé, già autore de «La legge del mercato», ha voluto trasporlo in film adottando uno stile asciutto, privo di svolazzi, lontano dalle sottolineature melodrammatiche e dai sentimentalismi, in un certo senso anche difficile per un grande pubblico abituato ad altri ritmi e ad altri racconti. Utilizzando un formato 4:3 (l’immagine quadrata adottata dopo l’avvento del sonoro prima di formati panoramici come Vistavision e Cinemascope) abbastanza desueto, Brizé mostra di volersi concentrare sui personaggi, sui primi piani, escludendo dall’immagine il resto del mondo. Così facendo mantiene una notevole fedeltà alle pagine di Maupassant ma allo stesso tempo evita ogni rischio di letterarietà componendo un’opera altamente visiva che, nella sua introspezione, getta un ponte tra passato e futuro dimostrando come pagine dell’Ottocento potessero già adombrare elementi che oggi sono attuali. Il rischio commerciale, pur tenendo conto delle esigenze economiche dell’impresa, ci pare un problema secondario.

Jeanne Le Perthuis di Vauds, figlia unica di un barone proprietario di fattorie, si innamora di un visconte decaduto, Julien de Lamare, e lo sposa. Scoprirà ben presto che il marito è un adultero impenitente. Prima metterà incinta la cameriera Rosalie, poi, perdonato, avvierà una relazione con una vicina che lo porterà alla rovina. Gli amanti cadranno sotto i colpi del marito, che poi si suiciderà. A Jeanne resterà il figlio Paul, che però non saprà educare con la necessaria fermezza. Viziato e insofferente, il ragazzo se ne andrà a Londra facendosi vivo solo quando avrà bisogno di soldi. E Jeanne, che vede dissiparsi il patrimonio di famiglia, non sarà mai capace di dire un no che la possa far uscire da una sofferenza sopportata come un male necessario.

Le situazioni ottocentesche illustrate dal film assumono un valore profetico nel momento in cui Brizé affronta l’argomento del rapporto con il figlio. Qui si guarda più lontano e si riconosce una situazione che è attuale e pulsante. Ma, anche si fosse limitato all’illustrazione del romanzo di Maupassant, l’autore avrebbe avuto a disposizione argomenti che, nelle loro dinamiche, possono tranquillamente varcare le soglie dell’epoca e parlarci di un oggi che tende a progredire molto poco. Piuttosto, adottando questo stile minimalista e non tralasciando mai di seguire (quasi pedinare) i protagonisti, Brizé costringe anche gli attori a un serio lavoro di immedesimazione, ottenendo almeno da Judith Chemla (Jeanne) un’interpretazione sfumata e intensa che permette da pochi segni di poter leggere lo scorrere del tempo senza che ne abbiamo indicazioni sovrascritte. E da questo esce un personaggio approfondito che rappresenta svariate cose: la vocazione alla sofferenza, l’impossibilità di una reazione che cambi il corso degli eventi, una passività si direbbe genetica, l’incrollabile fiducia in un domani che non arriverà. In effetti la nipotina, figlia di Paul, che Rosalie riporta da Parigi potrebbe essere una nuova speranza, ma anche un anello in più per proseguire la catena delle disgrazie. Stéphane Brizé ha un modo di narrare che lo potrebbe accostare ai Dardenne, quindi di rimbalzo a Bresson. Ma nell’educazione sentimentale di un’infelice che non vedrà i propri sogni realizzarsi si possono ritrovare anche tracce di Rohmer. Di suo, il regista ci mette la volontà ferma e il coraggio di realizzare un’opera rigorosa senza cedere ad alcuna sirena. Al giorno d’oggi non è pratica troppo frequente.

UNA VITA (Une vie) di Stéphane Brizé. Con Judith Chemla, Jean-Pierre Darroussin, Yolande Moreau, Swann Arlaud, Nina Meurisse. FRANCIA/BELGIO 2016; Drammatico; Colore.