Vi presento Toni Erdmann
Si si può aggrappare a una buona idea e pensare di essere nel giusto indipendentemente dai mezzi usati per esporla. Se così fosse Vi presento Toni Erdmann sarebbe probabilmente un capolavoro. E ne darebbero testimonianza il premio Fipresci a Cannes, i cinque European Film Award, la candidatura al Golden Globe e quella all’Oscar. Ma, dal nostro punto di vista, la buona idea e la sua esposizione non possono mai scindersi. Così il film della tedesca Maren Ade, teoricamente una commedia, in realtà una tragedia venata di grottesco, ha un assunto interessante che un po’ si perde strada facendo (molta strada: 2 ore e 42 minuti di durata), un po’ si presta a fraintendimenti che ne indeboliscono la portata. Ad esempio, sembra che il film parli di un padre che per far ritrovare alla figlia in carriera gioia di vivere e senso dell’umorismo si inventa un personaggio disturbante che la segue ovunque e che, riconducendo ogni dramma e ogni stress a una dimensione surreale e grottesca, le fa riacquistare umanità e leggerezza. Ma allo stesso tempo la rappresentazione e lo stile adottati inducono più a pensare che l’influenza paterna sia più simile a un virus da cui la ragazza è lentamente contagiata e che pertanto non ci si trovi di fronte a un recupero di umanità, ma a un’accettazione della follia. L’ambiguità non giova al film, che anche in virtù della durata lascia il tempo di riflettere e di prendere in considerazione altre opzioni.
Winfried Conradi è un insegnante in pensione che ha sempre mostrato propensione per lo scherzo e ama comportarsi sopra le righe. Sua figlia Ines lavora per una società petrolifera e, tutta presa dalla frenetica attività, non ha una vita privata, ride pochissimo e mette l’umanità all’ultimo posto. Detto e fatto: Winfried la raggiunge a Bucarest, diventa Toni Erdmann, piomba in ufficio o in qualunque altro luogo Ines si trovi e, in breve, le sconvolge la metodica esistenza. Alla fine, Ines tornerà a ridere e a una vita più leggera.
Quanto sopra avrebbe potuto essere raccontato in un film di media durata, con ritmi più veloci e soprattutto accentuando la linea di demarcazione tra vita vera e le favole di Erdmann. Maren Ade, invece, ha preferito adottare uno stile genericamente molto realistico e descrivere analiticamente le due esistenze parallele di padre e figlia fino al momento della convergenza finale. Ne è uscito un prodotto ibrido e sbilanciato che alterna descrizioni francamente sgradevoli a ripetute esplosioni di follia che a lungo andare prendono il sopravvento.
Nella totale assenza di una dimensione realmente surreale, però, si fatica a comprendere come le performance di Erdmann possano aprire un varco nel gelo di Ines e si finisce col prendere per buona l’idea di un generico elogio della follia in un mondo che resta comunque tragico e che condannerà i pazzerelli a una fatale emarginazione. Qui occorre comunque un’ulteriore annotazione: il cinema tedesco è ricco di drammi, di metafore, di simbologie, di riflessioni storiche e filosofiche, di viaggi e di visioni. Ma non di commedie.
Non sappiamo bene per quale motivo, ma l’umorismo tedesco o è assente o è un’arma spuntata. E non sarà un caso se due grandi commedianti come Ernst Lubitsch e Billy Wilder hanno potuto far esplodere il loro talento solo negli Stati Uniti. Per Maren Ade vale questo ragionamento: l’umorismo grottesco, che dovrebbe essere dominante nel film, è confinato in episodi in successione all’interno di un contesto profondamente tragico che prende decisamente il sopravvento. E, se consideriamo strettamente il minutaggio, vedremo bene quale delle due modalità di rappresentazione prenda il sopravvento. Con ciò, l’idea resta buona e le interpretazioni di Peter Simonischek e Sandra Hüller perfettamente aderenti ai rispettivi personaggi. Ma da qui a invocare il capolavoro corre una distanza incolmabile.