Un re allo sbando
Apparentemente satira fantapolitica con toni da commedia, Un re allo sbando di Peter Brosens e Jessica Woodworth (marito e moglie nella vita) è in realtà una bella riflessione esistenziale sull’uomo, sulla libertà, sulla felicità e su quanto sarebbe noiosa l’esistenza se ogni tanto non fosse attraversata da lampi di innocente follia.
Il film viene dal Belgio e, nel rappresentare una situazione paradossale e sopra le righe, finisce per restituire un’idea abbastanza precisa dell’incertezza che contraddistingue il presente dell’Europa. Quindi, al di là della fantapolitica, è anche un film di stretta attualità. Ma è anche un ottimo esempio di cinema (sempre apparentemente) semi amatoriale e/o improvvisato, alla radice del quale sta però un attento lavoro di preparazione che al caso non lascia proprio niente. E, tanto per gradire, è anche un film sorprendente, che non ci aspetteremmo da una cinematografia più seria che ilare.
In realtà Brosens e Woodworth hanno esperienza: una trilogia di documentari sulla Mongolia e due drammi molto cupi tra le Ardenne, il Perù e l’Iraq. Ma con Un re allo sbando (che in realtà si intitola semplicemente «King of the Belgians») tentano con successo un approccio diverso al cinema e ottengono un risultato davvero notevole.
Nicolas III, re del Belgio, si trova in Turchia in visita di Stato nel momento in cui la nazione sta per accedere all’Unione Europea. Contemporaneamente, a seguito della delegazione, è presente il cineasta inglese Duncan Lloyd, incaricato di realizzare un documentario sul monarca. Nicolas è una persona triste che occupa un ruolo che non vorrebbe e che è oppresso da diplomazia, ragion di Stato, protocollo e una sensazione di sostanziale inutilità. Se non che, durante la visita, arriva improvvisa la notizia che la Vallonia ha proclamato l’indipendenza e che il Belgio è praticamente diviso in due. Il re vorrebbe rientrare subito, ma una tempesta solare impedisce le comunicazioni e il decollo degli aerei. È Lloyd a prendere l’iniziativa e a organizzare una vera e propria fuga in pullman con un gruppo di folk singers bulgare, rendendo felice il re e gettando nello sconforto il capo della delegazione diplomatica. Il viaggio, molto avventuroso, attraverso i Balcani permetterà a Nicolas di ritrovare se stesso e di assaporare il gusto della libertà.
Brosens e Woodworth girano il film come un mockumentary (ovvero un falso documentario), in quanto tutto quel che vediamo è esattamente il materiale girato da Lloyd che, incurante delle raccomandazioni del diplomatico, riprende proprio tutto. Ma Un re allo sbando non è né un film di fantapolitica né un finto documentario. È invece un’appassionata ricerca sull’uomo, sulle sue aspirazioni a cose semplici, come serenità e anonimato, e meno semplici, come la vera libertà. Nel rimettere in gioco il ruolo del personaggio principale, che è re ma non vorrebbe, diventa quasi pirandelliano. E soprattutto mantiene costantemente un tono di sorriso che equivale a una totale adesione alle aspirazioni del monarca, una sorta di solidarietà verso tutti quelli che si trovano in vesti scomode o sgradite e che desiderano ardentemente la cosiddetta normalità.
In questo contesto si è portati a empatizzare con Nicolas, pur sapendo che probabilmente gli toccherà tornare al suo trono per affrontare una situazione piuttosto scomoda. E così il viaggio diventa, anche nel caso di situazioni difficili o pericolose, un’altra fuga impossibile verso la felicità. Anche se alla fine Nicolas III darà un ordine ben preciso: che Lloyd possa disporre liberamente di tutto il materiale girato e sfruttarlo come meglio crede. Che almeno il regista delle cause perse possa usufruire della libertà che il re non ha. Peter Van den Begin, che interpreta Nicolas III, è perfetto sia nello smarrimento sia nella dignità sia nei sussulti di carattere. E Pieter van der Houwen, che è Lloyd, sa cogliere appieno l’immagine del regista inglese impegnato, un po’ Ken Russell un po’ Ken Loach. Per una volta, si torna a casa convinti di non aver perso neanche un minuto di tempo.