Il grande gigante gentile
Cominciamo col dire che, per quanto gli elementi del cinema per l’infanzia siano presenti, conta molto di più il vero amore di Spielberg: cinema e basta. Facendo una carrellata ricca e sfumata sul proprio cinema e su quello di altri, Spielberg è praticamente tornato alla radice della propria passione identificando il gigante gentile con i sogni dell’infanzia e, in quanto dispensatore di bei sogni (talvolta anche brutti), proprio con il cinema. In un certo senso senza regole né costrizioni, in regime di totale libertà creativa e capace di evocare di volta in volta «King Kong», «Quarto potere», «E.T.», «Hook», «Incontri ravvicinati del terzo tipo» realizzando un segreto desiderio: che il mondo delle fiabe e la cosiddetta realtà possano trovare un punto d’incontro nel quale non tutto il reale è artificioso e cattivo e non tutto il fiabesco è oscuro e minaccioso. Ne esce un film diretto molto più a un pubblico consapevolmente cinefilo che ai bambini alla ricerca di stupore e meraviglia.
In ragione di tutto questo, forse a Spielberg dispiacerà che il film sia stato frainteso e condannato all’insuccesso. Ma certamente gli farà piacere di aver realizzato proprio il film che voleva, con una prospettiva di flop commerciale che in un certo senso faceva già parte del progetto e del quale pertanto l’autore era ben consapevole.
Sophie vive in un orfanotrofio di Londra. Poco propensa al rispetto canonico delle regole e con molti dubbi nei confronti dell’autorità costituita, la bambina vede alle tre di notte il gigante che si aggira per le vie dispensando sogni. E lui, che sa di essere stato visto, la porta con sé nel paese dei giganti, dove i suoi sette metri di altezza fanno sì che tutti lo considerino un nano. Gli altri mangiano i bambini, lui no. E tra lui e Sophie si instaura una sorta di alleanza per far sì che i giganti cattivi smettano con le loro malefatte. Considerando l’intraprendenza della bambina, non deve stupire che per risolvere le cose sia chiamata in causa persino la Regina d’Inghilterra.
Dunque, Sophie è un’orfana e il gigante è diverso dai suoi simili. La tematica della diversità spesso sostenuta da Dahl (vedi il personaggio di Matilda nel film di Danny DeVito) è quindi pienamente presente. Il grande gigante gentile è, tra le altre cose, un film sulla solitudine alla ricerca di adeguata compagnia. Quindi una storia di anime vagabonde che si cercano e, per quanto all’opposto nel carattere e nelle dimensioni fisiche, si trovano. In un certo senso, è la storia di un dolore che sgomita ostinatamente per trovare una situazione di speranza indipendentemente dai mezzi utilizzati e dalle vie percorse.
Evidentemente in Roald Dahl Spielberg ha trovato un mix di oscurità e luce che sicuramente gli hanno ricordato alcuni classici Disney, ma anche la possibilità di spaziare oltre i confini della fiaba per dichiarare per l’ennesima volta il suo sconfinato amore per il cinema che non è soltanto una scommessa tecnica, ma la consapevolezza di far parte di qualcosa che, proprio come il gigante, sarà sempre più grande di te. E, in chiusura, Spielberg si permette anche una rappresentazione (quella sì, fiabesca) di Buckingham Palace, di una Regina che dorme con la finestra aperta, che è disposta a credere ai giganti e che, una volta assaggiato lo «sciroppio» offerto dall’ospite, non trattiene la conseguente reazione corporale con potente emissione d’aria. Come dire, uno yankee alla corte di Sua Maestà.