Il cittadino illustre
Daniel Mantovani, scrittore argentino che vive a Barcellona da quarant’anni, riceve il Nobel per la letteratura in un momento particolare della sua esistenza: più impegnato a rifiutare inviti che ad accettarne, da qualche anno incapace di scrivere qualcosa di nuovo, seriamente preoccupato del proprio avvenire. Così, ricevendo il premio, spara a zero sulla giuria, sui reali di Svezia, su un pubblico elitario che vorrebbe trasformarlo in un monumento. Poi, imprevedibilmente, accetta l’invito del sindaco di Salas, suo paese natale in Argentina, e ci torna per la prima volta dopo essere partito anni prima. Il suo status di scrittore di successo insignito del Nobel lo pone in una posizione di privilegio, ma solo per un po’. Poi il ritrovare gli amici d’infanzia, lo scontrarsi con posizioni lontanissime dalle sue, la consapevolezza che quel mondo che lui ha lasciato rappresenta in realtà l’intera ossatura della sua opera e contemporaneamente la volontà di tirarsene fuori, fanno esplodere i conflitti.
La domanda potrebbe sembrare una: ne Il cittadino illustre degli argentini Gastón Duprat e Mariano Cohn la riscoperta da parte di Daniel delle proprie radici corrisponde a una ritrovata consapevolezza o a un’ammissione di fallimento? In realtà le domande sono molteplici. Può un artista sentirsi realmente libero dal passato? Cosa succede quando arriva il giorno del confronto? Gli ammiratori sono tali o non piuttosto invidiosi e rancorosi stalker che attendono con pazienza il giorno della vendetta? E più di tutto: la storia cui assistiamo è reale o non proviene piuttosto dalle pagine dell’ultimo romanzo di Mantovani che ha immaginato un ritorno in patria spingendosi alle estreme conseguenze? Duprat e Cohn riescono mirabilmente a mantenere l’ambiguità concedendo al loro protagonista una elegantissima battuta d’uscita. Al giornalista che lo interroga su quanto ci sia di vero e di inventato in quelle pagine, Mantovani risponde con una domanda: «Mi dica lei: questa cicatrice è provocata da un colpo d’arma da fuoco o da…?». E così restiamo a lì a chiederci se Mantovani è veramente tornato in Argentina e, quindi, se gli avvenimenti si sono verificati oppure se sono frutto di un’immaginazione vivida e anche di una sorta di autocritica profonda.
In fin dei conti, un altro giornalista fa notare che Il cittadino illustre è il primo romanzo di Mantovani ad avere lui stesso come protagonista. E, proprio quando stiamo per cedere le armi e accettare l’ambiguità, ci torna alla mente che nel corso del film sono più di uno i grandi della letteratura citati, da Borges a Garcia Marquez, ma uno solo del quale Mantovani dice qualcosa di più: Franz Kafka, con i suoi testi complessi e la sua prosa semplicissima. E allora, se accettiamo Kafka come nume tutelare dobbiamo anche accettare la possibilità che domande e risposte siano mescolate, capovolte e confuse in modo che nessun luogo di arrivo possa considerarsi un porto sicuro. Duprat e Cohn scelgono l’ambiguità come stile e, lavorando più sulla scrittura che sull’immagine, fanno il possibile per impedire che lo spettatore possa ritrovarsi con qualche certezza finale. E ci riescono.
Il cittadino illustre arriva alla conclusione che una vera conclusione non possa esserci. Daniel Mantovani è allo stesso tempo un genio, un fallito, un maestro, un uomo comune che intimamente rifiuta di accettare il fatto che il luogo che lui ha abbandonato possa rappresentare la fonte di tutto il suo lavoro: questo suscita in lui un conflitto aperto che, nella realtà o sulla pagina scritta, porterà alle estreme conseguenze. Interpretato magistralmente da Oscar Martinez, Daniel Mantovani ha l’unica certezza di essere argentino e la ferma volontà di essere cittadino del mondo. E il film di Duprat e Cohn è un notevole esempio di umorismo lanciato a folle velocità verso la tragedia.