La ragazza senza nome
Il punto è che da Luc e Jean-Pierre Dardenne, un po’ per abitudine, un po’ per stima incondizionata, ci aspettiamo sempre un capolavoro. E invece bisogna prendere atto che, fermi restando le buone intenzioni e il modus operandi, La ragazza senza nome capolavoro non è. E anche che, talvolta, anche i Dardenne possono cadere nella tentazione di rifare se stessi con differenze che non giocano a favore del risultato. Ne «La promesse», il loro primo film distribuito in Italia, affrontavano il problema degli emigrati clandestini, del lavoro nero e del cambiamento interiore di un ragazzo belga che decideva di aiutare e proteggere una vedova. Ne La ragazza senza nome ritornano trasversalmente sull’argomento parlando della necessità di mantenere un’identità per non finire in una fossa senza nome.
Jenny Davin è medico condotto in un ambulatorio alla periferia di Liegi. Una sera, sentendo suonare il campanello un’ora dopo la chiusura, dice a Julien, un tirocinante, di non aprire. La mattina dopo la polizia si presenta a chiederle notizie di una ragazza di colore trovata morta sulla riva del fiume e, poco prima, ripresa dalle telecamere dell’ambulatorio mentre suonava il campanello. Jenny, che sta per entrare in un ospedale importante con un incarico di rilievo, capisce di essere in qualche modo corresponsabile della morte della ragazza che, trovata senza documenti, non ha un’identità. Decide così di fare ricerche in proprio per tacitare il proprio senso di colpa nella consapevolezza che nessun altro si interesserà della ragazza in quanto essere umano. Così facendo, però, dovrà andare in posti poco raccomandabili, convincere qualcuno a parlare, rischiare minacce e violenze e scontrarsi con la polizia che non gradisce interferenze. La sua tenacia le farà ottenere il risultato che cerca.
Per quanto sul cinema dei Dardenne soffi sempre il vento del realismo, è un fatto che ogni loro film è in qualche modo riconducibile al thriller in quanto propone una progressione drammatica che deve condurre alla scoperta di una verità. Naturalmente i fratelli belgi evitano trovate ad effetto, situazioni di repertorio e luoghi comuni del genere.
Questa volta, però, il contenitore del thriller assume (loro malgrado) un peso più importante, di modo che si avverte distintamente la differenza tra le intenzioni sociali e umane e il modo di rappresentarle. La ragazza senza nome difetta in una costruzione che appare a tratti forzata e ripetitiva e che soprattutto non consente, a differenza degli altri film, una reale identificazione dello spettatore con il personaggio principale con conseguente coinvolgimento morale. Si ha come l’impressione che, per la prima volta nella loro carriera, i Dardenne abbiano affrontato una vicenda con un finale già scritto, quindi prevedibile, perdendo gran parte della loro forza e del loro impeto morale. La ricerca dell’identità di Felicie non è realmente un percorso interiore della dottoressa Davin, ma semplicemente un’indagine che lo spettatore segue dal di fuori senza reale partecipazione. Indubbiamente è presente una volontà di giustizia, di indignazione, di ricerca simbolica, che però rimangono a livello di intenzioni non supportate dal consueto stile oscillante tra il reportage e la sperimentazione tecnica che ha reso inconfondibili gli autori.
La ragazza senza nome è compromesso dal conflitto tra l’andamento da thriller e le intenzioni degli autori che al thriller non sono affatto interessati. La conclusione è che, nonostante la presenza di Jéremié Renier, Olivier Gourmet e Fabrizio Rongione (presenti in tutti i film dei Dardenne) e la riproposta di Thomas Doret («Il ragazzo con la bicicletta»), La ragazza senza nome assomiglia a un film dei Dardenne, ma non lo è veramente. Se Luc e Jean-Pierre se ne sono accorti, non potrà che essere un fattore positivo per il proseguimento della loro bella carriera.