Escobar
Potremmo partire da un dato di fatto forse paradossale: per quanto «Escobar» di Andrea Di Stefano non sia affatto un biopic sul boss della cocaina colombiano, senza la presenza nel suo ruolo di Benicio Del Toro il film non si sarebbe fatto. Il paradosso è relativo: è vero che tutta la vicenda è raccontata dal punto di vista di Nick Brady, giovane canadese innamorato di Maria, nipote del boss.
È vero quindi che Escobar non è sempre lo stesso, ma di volta in volta diventa quello che Nick vede e piano piano impara a conoscere. Ma è un fatto che più precisa fosse stata la caratterizzazione di Escobar, meglio sarebbe riuscito il film. E, al di là delle sfumature dell’interpretazione, Del Toro sembra nato per un ruolo del genere. Colpisce soprattutto il fatto che, al di fuori di ogni idea romantica del criminale con un codice etico, l’attore abbia puntato tutto sul carisma, sul fascino e su quanto tutto questo componga l’immagine di un mostro. Benefattore del popolo? Sì, nella misura in cui ciò gli permetteva di orientare le leggi colombiane verso il proprio tornaconto. Educatore dei figli a princìpi di onestà? Sì, nella misura in cui ciò potesse convivere con la gestione di un enorme impero criminale. Buon cristiano? Sì, salvo suscitare qualche (qualche?) dubbio nel momento in cui informa il sacerdote che in prigione si munirà di un potentissimo telescopio e scruterà il cielo nella convinzione di poter essere lui, Pablo Escobar Gaviria, a tenere Dio sotto controllo. Queste sfumature, molto difficili da rendere senza scadere nel grottesco, trovano in Benicio Del Toro la rappresentazione perfetta: credibile sia quando canta «Dio come ti amo» alla moglie incantata sia quando decide con un battito di ciglia la morte di qualcuno (uno o mille, nessuna differenza).
Nick e Dylan Brady arrivano in Colombia inseguendo il sogno di vivere in un bosco a contatto con la natura. Due piccoli boss locali non gradiscono e cercano di scoraggiare i canadesi. Nick, nel frattempo, si innamora di Maria, nipote di Pablo Escobar, ed è da lei introdotto nella sua reggia familiare. Il primo risultato della conoscenza è che i due prepotenti del bosco finiscono uccisi. Poi, mentre Dylan cerca di mettere in guardia il fratello da una situazione pericolosa, Nick accetta tutto per amore di Maria, finendo per essere coinvolto nel regolamento di conti successivo alla decisione di Escobar di consegnarsi alle autorità colombiane per evitare l’estradizione negli Stati Uniti. Ma Nick non è cambiato a tal punto da accettare di uccidere senza pensarci due volte.
Il dato più interessante di «Escobar» riguarda il regista: Andrea Di Stefano è un esordiente che fino ad oggi conoscevamo come attore ne «Il principe di Homburg» di Bellocchio, «Il fantasma dell’Opera» di Argento, «Prima che sia notte» di Schnabel e «Cuore sacro» di Ozpetek. Trovarlo con la sicurezza di un veterano al timone di un’operazione complessa come «Escobar» fa attendere con interesse gli sviluppi della sua carriera. A lasciare il segno è soprattutto la sua capacità di inserire le azioni di Escobar (sempre dal punto di vista di Nick, naturalmente) in un contesto realistico, quotidiano, lontano da ogni possibile mitizzazione che avrebbe suscitato pesanti equivoci. Lo stile adottato è, di volta in volta, quello del dramma familiare, del noir violento, del ripensamento morale e dell’egocentrismo di un criminale senza se e senza ma. Niente di tutto questo fa comunque riferimento a modelli espressivi di repertorio, seguendo i quali Di Stefano avrebbe finito per confezionare una replica de «Il padrino».
Così, invece, «Escobar» è il ritratto di un folle, convinto di dover colmare personalmente ogni lacuna della legge colombiana, come progressivamente definito dallo sguardo prima affascinato, poi stupito, quindi complice e infine distante di un testimone oculare esterno. Nella parte di Nick, il Josh Hutcherson di «Hunger Games» resta lontano anni luce dalla performance di Del Toro. Ed è un bene, perché gli tocca la parte di rincalzo dell’innocente che per gli stessi motivi di Escobar (l’amore, la famiglia) rischia di ritrovarsi dall’altra parte della barriera.