Il diritto di uccidere
Gavin Hood, regista e attore sudafricano, ha avuto una carriera molto alterna in cui figurano drammi sociali («Verdetto bianco», «Il suo nome è Tsotsi», Oscar 2005 per il miglior film straniero, e «Rendition») e blockbuster hollywoodiani («X-Men le origini – Wolverine» e «Ender’s Game»). Il fatto che per realizzare «Il diritto di uccidere» sia stata necessaria una produzione britannica significa probabilmente che Hollywood gli sta un po’ stretta e che il dramma bellico con precisi interrogativi morali è in cima ai suoi interessi. Il che non significa, naturalmente, che Hood abbia trovato la quadratura del cerchio. Il suo film pone questioni etiche molto importanti che, cammin facendo, appassionano ma che, alla resa dei conti, non trovano adeguata rappresentazione filmica. Di più: «Il diritto di uccidere» (titolo evidentemente etico, ma per niente simile all’originale «Eye in the Sky», cioè «Occhio nel cielo») potrebbe essere preso come esempio illuminante di come buonissime intenzioni e rappresentazione coerente possano essere indebolite e (quasi) vanificate da un epilogo retorico e banale.
La caccia ai terroristi di Al Shaabab porta l’esercito inglese e quello americano a una missione congiunta in territorio del Kenya. Qui dovrebbero incontrarsi tre terroristi, due di cittadinanza inglese e uno americana, che sono al top della classifica dei ricercati internazionali. Individuato il luogo dell’appuntamento, il colonnello Powell (inglese) e il generale Benson (americano) attivano i droni e qualunque mezzo tecnologico per saperne di più. Scoperto che all’interno della casa è presente un vero e proprio arsenale e che si sta procedendo all’armamento di due kamikaze, gli ufficiali chiedono l’autorizzazione a colpire dall’alto riducendo al minimo i danni collaterali. L’incrocio dei tre poteri, militare, giuridico e politico, rallenta le operazioni. Ma soprattutto le rallenta il fatto che all’esterno della casa una bambina abbia messo il suo banchetto per la vendita del pane. Powell e Benson vedono soltanto l’obiettivo finale, mentre il tenente Watts, che dovrebbe premere il pulsante del missile, vede anche il resto.
Non ci sono dubbi che «Il diritto di uccidere» sia un film tesissimo e coinvolgente non soltanto per il montaggio alternato e stringente, per il crescendo di tensione e per l’utilizzo adeguato dei meccanismi della suspense. E neanche per gli attori che, da Helen Mirren ad Alan Rickman, si impongono una misura che allontana ogni retorica. Lo è anche perché costringe chi guarda a porsi domande sulla guerra giusta, sull’importanza del risultato rispetto ai mezzi ottenuti per raggiungerlo, su quanto il potere umano sia inadeguato di fronte a questioni considerate marginali e invece fondamentali. Gavin Hood, sulla base di una sceneggiatura di Guy Hibbert, riesce a orchestrare un imprevedibile film da camera (le stanze del potere, la casa dell’appuntamento, la casa della bambina, tutti gli esterni visti esclusivamente con l’occhio dal cielo) ponendo tutte le domande volute. Poi, colpevolmente, riconduce il tutto a un finale che gronda retorica sia da un punto di vista tecnico che concettuale. La bambina è ancora viva. Il padre la raccoglie da terra e la carica su un furgoncino che si precipita all’ospedale.
Le riprese in ralenti dell’ingresso nell’ospedale, dell’arrivo del medico, della ricerca di segni di vita, della disperazione dei genitori che non lasciano dubbi sul destino della piccola. E dall’altra parte la chiusura della pratica da parte degli ufficiali accostata al pianto del tenente Watts. Tutto plausibile e profondamente triste, ma anche terribilmente spettacolare e speculativo. Come se, arrivato a destinazione, Hood si fosse improvvisamente ricordato di essere al timone di un’operazione destinata al grande pubblico, che ha comunque le proprie esigenze e richiede qualche spiegazione spettacolare più che etica. Così di punto in bianco «Il diritto di uccidere» torna ad essere un film di guerra più di repertorio che innovativo. Peccato.