It follows
Siamo a Detroit, forse. Sembra più una città sognata, anzi frutto di un incubo. Dai quartieri perfetti si passa bruscamente a periferie vecchie, quasi in decomposizione. Praticamente non ci sono adulti se intesi come rassicurazione o punto di riferimento. Vediamo soltanto adolescenti, soli con le loro sicurezze (pochissime) e le loro paure (molte). Queste paure non hanno né un volto né un nome. Lo spiega come può Hugh a Jay dopo una serata strana. Sono andati al cinema e hanno fatto un gioco proposto da lei: guardarsi intorno e decidere di voler essere un’altra persona. L’altro ha due possibilità per indovinare chi e perché. Quando Hugh dice: «Quella ragazza col vestito giallo» e Jay non la vede, lui ha improvvisamente paura. Lasciano il cinema e, come ai vecchi tempi, hanno un incontro sessuale in macchina. Poi Jay è cloroformizzata e si ritrova legata mentre Hugh le spiega che qualcuno l’ha passato a lui e che adesso lui l’ha passato a lei. Le verrà incontro lentamente, potrà avere una faccia conosciuta o meno, solo lei lo vedrà. Non dovrà farsi toccare e, facendo quanto prima l’amore con qualcuno, passarlo a sua volta per evitare di morire.
Dopo un incipit così, realmente aggressivo e coinvolgente, David Robert Mitchell, autore di It Follows («Segue»), ci ha fatto capire qualcosa. Che i ragazzi del film sono tutti i ragazzi senza un avvenire, trascurati o dimenticati dai genitori e dalle istituzioni, costretti a vivere in un presente interminabile perché privi di agganci col futuro. Che chi li segue non è esattamente un’entità paranormale o aliena: è semplicemente la loro paura senza nome che, nel momento in cui li tocca, ha ragione di loro. Che forse non c’è neanche un antidoto e che ogni volta che vedranno qualcuno venire loro incontro o sentiranno alle spalle i passi di uno sconosciuto, avranno paura. Che i loro incubi non sono né Freddy Krueger né Michael Myers né Jason Voorhees né un qualunque serial killer: un nome ridurrebbe l’impatto. I loro incubi sono chiunque: a qualcuno apparirà la madre, a qualcuno il padre, a qualcuno un’anziana sconosciuta. E gli amici, che stentano a credere a Jay ma vogliono aiutarla, non possono vedere ciò che soltanto lei vede. Ovvero, la paura è qualcosa di incomunicabile, talmente personale che si vive da soli e da soli dobbiamo risolvere.
Mitchell deve essere una persona piuttosto intelligente: prende l’horror, ripropone modalità e situazioni anche già viste, ma lo trasforma in un film sul presente adottando un’ottica totalmente pessimista. Tutto ciò che nei film apertamente sociali è indagato e drammatizzato (dalla crisi economica alla disoccupazione, dallo sfascio delle famiglie alla caduta dei valori) lui riesce a trasformarlo in paura pura e semplice. Certo, la necessità di un rapporto sessuale per innescare il meccanismo riporta (con qualche modifica) alla codificazione di «Scream»: chi fa sesso muore. Ma anche al contagio virale de «Il demone sotto la pelle» di David Cronenberg. Il tutto, però, ricondotto a uno sguardo preoccupato e consapevole su una società apparentemente votata all’autodistruzione. E It Follows ottiene l’effetto non semplice né scontato di lasciarci addosso un po’ d’inquietudine che decisamente non è paura dei fantasmi. Girato senza sussulti, con un ritmo lento che ne accentua il senso di ineluttabilità, con l’andatura altrettanto lenta e ineluttabile di paure che a parte tutto ci raggiungono proprio come i morti viventi di Romero, si pone come esempio brillante di horror non fine a se stesso che ha un’idea e la sviluppa senza cedere alle tentazioni del genere. Non male per un quarantatreenne del Michigan al suo secondo lungometraggio.