La foresta dei sogni
L’idea che ne La foresta dei sogni di Gus Van Sant tutta l’apparente ricchezza di temi che vanno dal confronto tra Oriente e Occidente, alla ricerca della morte, quindi al desiderio del suicidio, a elementi fantastici (o sacri, a seconda del punto di vista) del genere di una foresta dalla quale non si riesce ad uscire, al destino che regola l’esistenza umana, finisca per azzerarsi di fronte a quello che si rivela come il tema principale, ovvero la crisi matrimoniale di Arthur e Joan Brennan e le vie contorte che i due seguono per cercare di ricomporla, non è in effetti un punto a favore del film. Che contiene elementi di interesse, fascinazioni, atmosfere cariche di presagi, ma di certo non ha il coraggio di scegliere la via più complessa preferendo adagiarsi su una soluzione di comodo che contenga meno implicazioni filosofiche e misteriche e una più rassicurante tematica familiare cui tutt’al più si può concedere un finale non esattamente consolatorio. Considerando che Van Sant aveva iniziato una carriera all’insegna del politicamente scorretto e della provocazione, caratteristiche mantenute anche nei film meno anomali, bisogna concludere che il processo di integrazione e omologazione è andato molto avanti.
Arthur Brennan arriva in Giappone diretto alle pendici del monte Fuji. La mèta è la grande foresta Aokigahara, che sembra particolarmente indicata per chi voglia metter fine ai propri giorni. In sostanza, una selva dei suicidi. E Arthur, poco dopo esservisi inoltrato, comincia a trovare cadaveri: un impiccato, un annegato e via dicendo, finché non si imbatte in un vivo. È Takumi Nakamura che, declassato sul posto di lavoro, non regge al disonore e cerca la morte. Mentre tra i due si instaura un rapporto legato all’interesse comune, veniamo informati del perché Brennan si trovi lì.
L’incapacità di adattarsi a un lavoro diverso da quello creativo che vorrebbe, il gravare economicamente sulle spalle della moglie Joan che vende case, il progressivo deteriorarsi del loro rapporto, la scoperta della malattia della moglie e, infine, la sua morte causa incidente che lo mette di fronte alla propria inadeguatezza e a quanto poco sapesse realmente di lei, tutto lo porta a desiderare la morte. Ma non sempre pulsione e mèta coincidono.
Narrativamente La foresta dei sogni è gravemente appesantito dai continui flashback che raccontano la crisi coniugale dei Brennan, mentre niente ci è mostrato di Nakamura che si svela unicamente a parole. Ciò, tra l’altro, dovrebbe insospettirci e portarci a un quesito più folkloristico che sostanziale: Nakamura è realmente quel che dice di essere o non si tratta piuttosto di una sorta di spirito guida che dovrebbe guidare Arthur alla consapevolezza e all’autocoscienza? Il dubbio resta, ma è indiscutibile che l’incontro con lui porti il protagonista a porsi domande e, più importante, ad occuparsi di qualcuno che non sia se stesso.
Questo percorso di autoanalisi, però, si lascia alle spalle tutte le implicazioni misteriose e culturali per approdare a una semplice consapevolezza di voler ricominciare. Come dire che il confronto tra la cultura occidentale e quella giapponese è servito soltanto a risolvere i problemi del singolo e non a rimettere in discussione uno stile di vita e una mentalità consolidati. Un po’ poco per un Van Sant che, pur rischiando spesso la banalità, era anche stato in grado di toccare tasti più profondi.
In più, la presenza nel ruolo principale di Matthew McConaughey porta a una sovraesposizione che non corrisponde a un lavoro di approfondimento. Cupo, apparentemente predestinato, persino monocorde, l’attore è un giocatore che sa già come andrà a finire la partita. Non va meglio con Naomi Watts, che se il film avesse osato di più a livello tematico non avrebbe neanche dovuto esserci. Un faccia a faccia tra McConaughey e Ken Watanabe, come fu tra Lee Marvin e Toshiro Mifune in «Duello nel Pacifico», avrebbe avuto più senso. Così, invece, Van Sant racconta una storia vecchia.