Le confessioni
Applicando con spirito e senso del paradosso tematiche equamente suddivise tra Kafka e Pirandello alla commedia di costume con gli occhi spalancati sulla politica in «Viva la libertà», Roberto Andò ci aveva convinti. Proseguendo sulla strada della realtà filtrata attraverso la lente dell’assurdo in un contesto più simile a un thriller ne Le confessioni, ci convince meno. Sarà che quell’albergo situato in Germania, a Heiligendamm, dove veramente ebbe luogo un G8, ricorda molto da vicino il centro benessere di «Youth».
Sarà che il canovaccio thriller tra economisti mondiali, un monaco certosino, una rockstar e una scrittrice di libri per bambini evoca a più riprese «Todo modo» (ma anche «Il contesto», quindi più Sciascia che Petri). Sarà che, perso dietro gli scambi più filosofici che spirituali tra il monaco e i convenuti, Andò trascura il thriller non riuscendo mai a creare un’autentica atmosfera di attesa. Sia quel che sia, Le confessioni ci lascia con la sensazione precisa di un’incompiuta al di là della volontà dell’autore. Pur evidenziando buone idee e qualche pregio formale, il film rischia di inciampare nel già visto e nel narcisismo intellettuale.
La riunione del Fondo Monetario presieduta dal francese Roché sembra destinata a partorire una manovra economica che, più che di un effetto travolgente, sembra anticipatrice di una vera e propria apocalisse. Ma l’idea è solo di Roché che, dopo aver preteso e ottenuto che all’incontro partecipassero anche un monaco, una rockstar e una scrittrice, chiede a padre Salus di confessarlo la sera prima dell’inizio dei lavori. Il monaco accetta, pur affermando di non amare il mestiere di confessore perché i peccati altrui lo imbarazzano. Al mattino, Roché è trovato morto soffocato da un sacchetto di plastica. Suicidio o altro? È evidente che gli occhi di tutti sono puntati su Salus, che però non parla perché legato al segreto confessionale. E anche perché da molto tempo legato a una sorta di voto di silenzio che lo aiuta ad astrarre dal reale per concentrarsi sulla preghiera.
Dire che Le confessioni è un film senza conclusione non significa rivelare qualcosa di segreto. D’altronde, le intenzioni di Andò non erano quelle di realizzare un thriller con delitto e castigo, ma piuttosto quelle di costruire un castello di ambiguità che finissero per mettere alla berlina i potenti del mondo attraverso la figura di un monaco che, non inconsapevolmente, usa l’arma del silenzio in un contesto in cui parole e numeri sembrano dominare. È in fondo l’idea migliore del film: un personaggio che, tacendo, mette in crisi le persone che possono decidere di far arricchire un paese e impoverirne altri dieci. Roberto Andò, però, non è così rigoroso e tagliente come vorrebbe. Ad esempio ci si chiede l’utilità di un personaggio, la rockstar che canta «Walk on the Wild Side» di Lou Reed, che più che marginale sembra proprio inconsistente.
E ancora, perché mai la scrittrice Claire Seth sembri letteralmente modellata su J.K. Rowling: una scrittrice di libri per bambini che, stufa delle fiabe, è passata al giallo. Non essendo un particolare che giovi in qualche modo all’andamento del racconto, potrebbe sembrare una gratuità simile al finto Maradona di «Youth». Così facendo, Andò divaga dalla strada maestra del film e costringe il meglio a confrontarsi con qualcosa di mediocre che potrebbe compromettere l’intera operazione. Le confessioni sembra insomma un film più ambizioso che riuscito.
Da lodare, indubbiamente, la musica di Nicola Piovani, l’interpretazione di Toni Servillo (anche se meno inventivo che altrove), la fotografia di Maurizio Calvesi e un gruppo di attori che riescono a far capire quanto l’inadeguatezza dei rispettivi personaggi possa essere un buon banco di prova anche in assenza di acuti. Tutto molto freddo, molto distante e poco coinvolgente. Una buona esemplificazione di un passo più lungo della gamba.