Il ponte delle spie
Steven Spielberg, ovvero il creatore di sogni, di grandi spettacoli, di blockbuster, di personaggi che sono entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo. Ma non basterebbe a definirne la complessa personalità indicandone soltanto un aspetto ugualmente ricco di pregi e difetti. Spielberg sa anche essere analista storico, quando lasciandosi prendere la mano da retorica e citazionismo («Il colore viola», «L’impero del sole», «War Horse»), quando invece proponendo perfette ricostruzioni con un notevole corredo di problematiche e quesiti, che sempre fanno capo al ruolo dell’America nella politica mondiale.
Nel 1997 fu «Amistad», su democrazia e razzismo, oggi è «Il ponte delle spie» sulla guerra fredda e la caccia alle spie. Non diciamo che il film sia una ricostruzione rigorosa e scarna di eventi storici. Rigoroso e scarno sono due aggettivi che Spielberg frequenta pochissimo. È però una ricostruzione serrata, appassionata, coinvolgente e talora sorprendente di un periodo molto difficile che avrebbe potuto addirittura portare allo scoppio di un nuovo conflitto mondiale. Ed è anche una favola morale sull’idealismo e la testardaggine di un singolo che per una volta prevalgono su qualunque ragion di Stato. In questo senso «Il ponte delle spie» una sessantina d’anni fa avrebbe potuto essere diretto da Frank Capra con James Stewart protagonista.
Nel 1957, a Brooklyn, Rudolf Abel è arrestato come spia sovietica. Pur rifiutando ogni accordo e non rivelando alcun segreto sulla rete di spie, Abel è mandato sotto processo. E siccome gli Stati Uniti non vogliono dare l’impressione di condannare per partito preso, gli è assegnato un avvocato affiliato a uno studio di grido che gli garantirà una difesa adeguata. E James Donovan lo difenderà a scapito della propria immagine pubblica, evitandogli la condanna a morte e poi facendolo oggetto di uno scambio che dovrà avvenire a Berlino proprio nel momento in cui la città vede la nascita del muro che la dividerà in due. Donovan, che ufficialmente non rappresenta il Governo americano, sa poco di equilibri internazionali e molto di princìpi etici. Lo scambio si farà.
«Il ponte delle spie» non è soltanto un thriller spionistico. Spielberg, giovandosi di una bella sceneggiatura dei fratelli Coen e di Matt Charman, pone alcuni quesiti etici ed esistenziali che non risparmiano agli Stati Uniti qualche dardo avvelenato a testimonianza di un lavoro scrupoloso e consapevole. È evidente infatti che Donovan si pone come punto d’impegno di considerare Abel nel suo essere uomo prima che spia, quindi un fedele esecutore di un lavoro commissionato dal suo governo esattamente come fanno le spie americane nei paesi stranieri. Dall’altra parte c’è la legge americana, che va ovviamente applicata. Ma, oltre la legge, ci sono varie considerazioni su intolleranza e fanatismo che rendono molto difficile equilibrare le parti. Questo complesso meccanismo Spielberg lo gestisce da maestro affidandosi a una ricostruzione ambientale magnifica e a un complesso di attori più che affidabili.
Tom Hanks ha una particolare capacità: di calarsi con grande naturalezza nei panni dell’uomo comune (anche se Donovan era per molti versi fuori dal comune) e di non farsi mai trovare sopra le righe. Dall’altra parte Mark Rylance, esperto attore teatrale, incarna Abel con semplicità e pacatezza. Il suo ripetere costantemente a chi gli chiede se non sia preoccupato «Servirebbe?» fa capire perfettamente la tonalità di un’interpretazione perfetta. Poi c’è Berlino Est, in una DDR non riconosciuta dagli Stati Uniti come stato sovrano e intenzionata ad esserlo nonostante l’evidente connivenza con la Russia. Così «Il ponte delle spie» diventa una pagina di storia che può essere utile ripercorrere giovandosi anche di uno spettacolo di prim’ordine. Gli sguardi della gente sulla metropolitana, l’ostinazione di Donovan nonostante la disparità delle forze, la dignità di Abel, i complessi rapporti familiari e tanti problemi non ancora risolti bastano a perdonare Spielberg per la scivolata retorica di «War Horse».