Dheepan – Una nuova vita
In realtà, vi sono alcuni fattori che depongono a favore, altri contro. Alla fine potremmo ritrovarci a tentare nuovamente di definire un autore che comunque non convince fino in fondo, pur facendo egli il possibile per rendersi visibile e interessante. Non c’è dubbio che in «Dheepan» Audiard abbia cercato di rendersi le cose il meno facili possibile. Ad esempio scegliendo un’etnia di protagonisti (profughi dallo Sri Lanka) che non parlano francese, comunicano nella loro lingua e costringono all’uso dei sottotitoli. Oppure inserendoli in una realtà, una banlieue parigina, popolata di emarginati, delinquenti e violenti che non sembrano l’ideale per l’integrazione. O ancora immaginando che il protagonista, Dheepan solo perché ha assunto l’identità di un defunto, abbia fatto parte in patria della fazione ribelle delle Tigri Tamil, comunisti e nazionalisti che negli anni Settanta scatenarono la guerra civile. Da cui il particolare di non secondaria importanza che, nel momento in cui Dheepan avverte che moglie e figlia (che non lo sono veramente) si trovano in pericolo, si risveglia in lui la natura del guerriero con conseguenze letali per gli avversari.
Da qui, in effetti, dovremmo andare a ritroso e domandarci se il film proceda verso la definizione di un particolare rapporto umano che conduce una famiglia finta a trasformarsi in vera dopo essere stata sottoposta a esperienze forti, oppure se lo scopo di Audiard sia un altro. Quello, cioè, di confinare nel limbo di un sogno (o di una fiaba) l’unità familiare dei tre profughi dando maggiore spazio alla concretezza di una violenza che, per quanto fulminea e non compiaciuta, è ampiamente preparata da atmosfere, analisi psicologiche e segnali sociali. Ci si chiede, insomma, se «Dheepan» punti all’analisi accurata delle enormi difficoltà di inserimento di profughi in un contesto sociale più che problematico, o se invece non agisca astutamente sul lato emozionale della vicenda, nella quale l’esplosione di violenza rappresenta una sorta di liberazione emotiva in preparazione di un lieto fine consolatorio che, così com’è presentato, è veramente poco credibile.
Bisogna dire che Audiard ha fatto il possibile perché «Dheepan» non assomigliasse affatto ai suoi film precedenti e soprattutto a «Il profeta», con il quale poteva avere qualche vaga assonanza. Ma anche in questo caso ci si domanda se le complessità del percorso non siano ostacoli autoprodotti per convincere tutti della bontà delle intenzioni. Perché non si può fare a meno di notare come, nonostante lo srilankése, lo stile apparentemente dimesso, l’indugiare della macchina da presa sui due protagonisti e sulle notazioni ambientali, l’apparenza di analisi umana e sociale, «Dheepan» non sia in fondo molto diverso da un noir (anomalo, certamente) nel quale tutto converge sul repentino cambiamento di un personaggio che si rivela assai diverso da quel che credevamo.
Che Dheepan non sia un emigrato qualunque, ma un guerriero letale lo scopriamo veramente soltanto nel momento in cui il climax drammatico del film raggiunge il punto in cui occorre una soluzione spettacolare. E allora ci si domanda che razza di posto sia quello in cui Dheepan è stato mandato a fare il custode, come sia possibile che l’escalation della violenza abbia atteso tanto per esplodere e soprattutto che tipo di paradosso sia il finale in Inghilterra, dove la nuova famiglia è arrivata chissà come. Ne consegue che, pur contenendo elementi di notevole interesse, «Dheepan» è un film molto ambiguo, sia per il significato del racconto che per le sue modalità espressive. E ne consegue anche che Jacques Audiard, molto attento a raccontare storie giuste per soddisfare anche un pubblico più esigente, sia ancora un autore in via di definizione. Si chiamano lavori in corso, non capolavori.