Sicario
Tutt’al più, il massimo della critica cui si può aspirare è quello di fare una gran fatica a distinguere i buoni dai cattivi nel momento in cui entrambi usano esattamente gli stessi metodi. Il canadese Denis Villeneuve, autore di un gran film come «La donna che canta» e di un thriller disomogeneo ma molto personale come «Prisoners», ha scelto un’altra strada. «Sicario» racconta della caccia a un boss della droga, Fausto Alarcon, ma racconta soprattutto dei sistemi usati dai cacciatori e di quanto le cosiddette regole etiche si siano progressivamente spostate verso una sorta di anarchia nella quale le divise non sono sinonimo di giustizia, gli ordini possono essere dati da uno sconosciuto cui bisogna ubbidire senza discutere e l’obiettivo non è più l’eliminazione del male, ma il mantenimento del controllo. Come dice uno dei personaggi: «Mi stai chiedendo come funziona l’orologio. Limitiamoci a controllare l’ora».
Kate, agente Fbi, partecipa a un’operazione che rivela una quantità di cadaveri occultati nelle pareti di una casa di proprietà di un boss. Matt, agente della Cia, la vuole con sé in una complessa azione orchestrata tra Messico e Stati Uniti per debellare il cartello di Alarcon. Kate, convinta di essere dalla parte dei buoni, si offre volontaria. Ma capisce ben presto che l’operazione è una sorta di guerra senza quartiere, che niente di ciò che vede è riconducibile a procedure legali e soprattutto che l’enigmatico Alejandro, ufficialmente consulente del Governo, è autorizzato dalle alte sfere (le più alte) a combattere una battaglia personale che una volta si chiamava vendetta. A lei non resterà che chinare il capo: l’alternativa sarebbe una morte violenta fatta passare per suicidio.
Villeneuve ha molto a cuore l’aspetto psicologico dei personaggi coinvolti nella vicenda e riesce a trasformarlo in un elemento di continua tensione che, scene d’azione a parte, non si allenta un attimo per tutto il film. Così «Sicario» diventa una specie di discesa all’inferno dove ogni azione è legittimata da una legalità che alla prova dei fatti non è altro che uno specchio per le allodole. Non è tanto importante il fatto che le malefatte della Cia siano rappresentate con tanta evidenza: non sarebbe la prima volta. È importante invece il fatto che siano accuratamente definiti i caratteri dei personaggi a comporre un quadro, a dispetto degli scenari desertici e della elevata temperatura, totalmente gelido. Per ottenere questo risultato, Villeneuve evita accuratamente di cadere nei luoghi comuni del thriller e può disporre, nel ruolo di Alejandro, di un Benicio Del Toro che costruisce una delle sue migliori interpretazioni. In pratica, setacciati progressivamente tutti i personaggi magari importanti ma non essenziali, restano in campo Kate (Emily Blunt, prima battagliera e idealista, poi incredula e infine rassegnata) e Alejandro.
Rappresentano le due facce della medaglia: chi combatte perché ha un ideale, chi agisce come una schiacciasassi per raggiungere uno scopo personale, incidentalmente coincidente con l’obiettivo dei «buoni». Ne esce un film violentemente critico, spietato nella sua ricerca di una verità che non finirà mai in prima pagina, capace di catturare l’attenzione dello spettatore e, pur non avendo un ritmo particolarmente accelerato, di non mollarla mai fino alla fine. Se a qualcuno dovesse ancora venire il dubbio di un’eventuale ambiguità legata al fatto che il fine giustifichi i mezzi e che gli agenti sono comunque pagati dallo Stato per fare il loro lavoro, dovremmo concludere che non ha seguito il film con la giusta attenzione.