Un mondo fragile
Perché un mondo fragile può essere applicato a una quantità di cose, mentre la terra è proprio quella, la terra natale, la Colombia, e l’ombra non è quella delle nubi che velano il sole, ma quella provocata dagli incendi delle foglie di canna da zucchero che non solo oscura il sole, ma porta con sé malattie polmonari e morte precoce. Mai come in questo caso sarebbe stato giusto e necessario mantenere la lingua originale del film corredandolo di sottotitoli. Perché il doppiaggio, per quanto accurato e (forse) commercialmente più redditizio, non potrà mai rendere i sentimenti e le sensazioni suscitati dalla lingua del posto, che aiuterebbe molto a capire la verità e la portata del racconto.
Acevedo racconta un pezzo consistente della Colombia, quello legato alla coltivazione della canna da zucchero, che dà lavoro a tanti poveracci reclutando intere famiglie, ma che è intimamente legato alla logica del profitto e quindi al volere del padrone che è insindacabile. I lavoranti, detti corteros perché tagliatori di canne, lo sanno benissimo, ma hanno bisogno del lavoro e sono costretti a inghiottire i bocconi più amari.
La prima inquadratura è emblematica: una lunga strada sterrata tra due piantagioni di canne, un uomo che cammina verso la macchina da presa, una fila di camion alle sue spalle che lo sorpassa sollevando nuvole di polvere e proseguendo nel cammino. Lui si scosta per far passare, quasi si nasconde tra le canne e torna sulla strada solo quando la polvere si è diradata. Sappiamo benissimo, e lo sa anche lui, che continuerà a respirarla fino a destinazione. È Alfonso, un vecchio contadino, che si riunisce alla famiglia quando il figlio Gerardo è ammalato e immobilizzato a letto per problemi di respirazione. Conosce il nipotino, Manuel e la nuora Esperanza. Ritrova la moglie Alicia, che non lo ha perdonato per essersene andato ma adesso ha bisogno di lui. E la ricomposizione del nucleo familiare è l’unica certezza in un «mondo fragile». Anche se Alicia non ha intenzione di lasciare la sua casa e la sua terra, gli altri partiranno per trovare un luogo dove, magari, gli uccelli scendano dagli alberi a mangiare un mandarino sbucciato e offerto.
«Un mondo fragile» è un film orizzontale: nessuna inquadratura dal basso né dall’alto, ma soltanto ad altezza d’uomo. Acevedo sa bene che la forza del racconto acquisterà di spessore quanto più la sua regia eviterà di interferire con l’abitudine quotidiana e il monotono trascorrere dei giorni. E, per evitare pericolosi coinvolgimenti emotivi, rinuncia persino a scavare più a fondo nei personaggi mantenendoli come rassegnati a un destino ineluttabile e impedendo allo spettatore di potersi identificare in qualcuno di loro, forse con l’eccezione del piccolo Manuel che è quello che subisce soltanto di rimbalzo e, almeno per una questione anagrafica, ha più tempo davanti a sé per immaginare un mondo migliore.
Eppure, nella sua lentezza che è quella della vita locale, «Un mondo fragile» riesce a non far mai cadere una tensione morale che, dalla Colombia, si applica a tutti i luoghi del mondo nei quali siano presenti analoghe condizioni di vita.
Acevedo non è ottimista, ma cerca spesso la bellezza di un paesaggio, la profondità di uno sguardo, qualche sussulto di dignità umana, lampi di poesia nei dialoghi tra Alfonso e Manuel, per dire a se stesso e a tutti che non è scritto da nessuna parte che se le cose sono sempre andate così debbano per forza continuare a farlo. In questo senso assume un’importanza fondamentale il ruolo dell’unità familiare, senza la quale le persone perderebbero un punto di riferimento essenziale: un luogo nel quale tornare, qualcuno di cui occuparsi, domande alle quali rispondere. Persino Alicia, che non parte, tornerà ad abbracciare Alfonso, che se n’è andato per non vedere il progressivo decadimento della sua terra ed è tornato per cercare di salvare il salvabile. Nella generale desolazione, un messaggio forte di speranza e, a suo modo, un inno alla vita, alla libertà e alla dignità umane.